Poemetti (Rapisardi)/L'asceta

L’asceta

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Il passaggio dell'Imperatore Le due voci
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L’ASCETA.


I.


     Da mille prove austere esercitato,
In visíoni oltraterrene immerso,
Visvámitra da molti anni vivea;
E già del suo trionfo in su’ ribelli
Domati sensi era vicino il giorno,
Allor ch’Indra geloso (è di tal nume
Oppugnar la virtù che a lui ne adegua)
Un’Apsárasa indusse a romper guerra
Al terribile asceta. Amba, le disse,
Tu che in membra perfette hai destro ingegno,
Quel superbo mortal doma, che impero
Tanto ha di sè, che ov’altro fior ne acquisti,
Scombujerà tutti i miei regni, e armato
Del suo voler detterà leggi al mondo.
Ubbidíente al nume (e chi potrebbe
L’ira affrontar che da tanti occhi ei vibra?)
Nell’aria si tuffò, qual mergo in lago,
La bellissima ninfa, a cui d’amore
Tutte son l’arti ed i prestigj aprici,
E con celere nuoto al bosco venne,
Dove immobile il Saggio e tutto assorio
Ne lo splendore d’un pensier sublime,
Bruto dell’Ideale, al ciel sorgea.
Indra venne con essa; e forma e voce
D’un cóchilo assumendo (angel divino
C’ha di canto e d’amor l’anima ordita)
Fra’ rami d’un’opaca arbore occulto
Secondò dell’astuta Amba gl’inganni.

     Era nella foresta un vivo fonte,
Che lacrimando da un’aerea rupe,
Una folla di miti erbe e di fiori

Qua e là per gli anfratti ermi nutría.
Quivi diritto su la cima alpestre
Meditava l’asceta. Alto era il sole;
E abbarbagliato, estatico tacea
Nel gran mistero luminoso il mondo,
Ed ecco un’aura lascivetta insinua
L’ale tra’ rami; curíose svegliansi
Scintillando le foglie, e dolci fremiti
Propagando si van per le fresche ombre;
Si confondono in un voluttuoso
Palpito i raggi e le fragranze; e un canto
Divin le ascoltatrici aure possiede,
Come odorato zefiretto estivo
Per arso pian cui vedovò la falce,
Passava la canora aura sul core
Del meditante solitario, quando
Su su da’ greppi erbosi, a poco a poco
Emergere ei mirò d’Amba le forme.
Alte sopra la testa in arco piega
La ninfa rigogliosa ambe le braccia,
E con le palme un bel canestro regge
D’ambrosie frutta ridondante: roridi
Pendono intorno smeraldini pampini;
Si pompeggian nell’ambra e nella porpora
Prorompenti dal verde opimi grappoli,
E tra le foglie luccicanti in copia
Auree susine e rosee mele occhieggiano.
Giù dal capo venusto in due partita
Scende la chioma su le nivee spalle,
Scende su’ lombi enormi, e un manto d’oro
Dir la potresti dal pudor tessuto
A invidíar tanta bellezza al cielo.
Ma nude e bianche e arditamente erette
Sboccian le mamme; castigato e lieve

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     Digrada, campo di ligustri, il ventre:
     E muscolose le marmoree gambe
     Esultano a’ giocondi occhi del sole.
     Pispigliavano l’aure al suo passaggio;
     S’inchinavano i fiori; trasognata
     Ella incedea co’ grandi occhi socchiusi
     E con le labbra a l’aura semiaperte,
     Qual se dal cuore emerso e incerto al varco
     V’alíasse un sorriso, un canto, un bacio.

Tale il santo la vide, e un caldo fiotto
     Di giovinezza inturgidir le vene
     Sentì; ma tosto si represse. Ansava
     Su per l’erta la ninfa, e superato
     L’ultimo giogo, innanzi al pio depose
     L’aurea canestra, e con soave accento:
     Salve, o padre, gli disse; Indra da’ mille
     Occhi te vide estenuato, e questi
     Insaporati ne’ pomarj eterni
     Doni a te manda: un’immortale essenza
     Infuse in essi innamorato il sole,
     Tal che le forze rifiorire e balda
     Vigoreggiar la giovinezza in core
     Sentirai tosto che di lor ti cibi.

E Visvámitra a lei così rispose:
Creatura leggiadra, e chi potrebbe
Mirar la tua beltà senza che al cielo
L’animo si sollevi, e al provvidente
Generator de la bellezza inneggi?
Voce sublime è la beltà, che il triste
Mortal su l’erta de la vita incuora,
Raggio divino entro il cui roseo lume
Si coloran le umane anime, e vanno
Per mille versi turbinando al cielo;
Ma la beltà che un bieco animo veste
Dalla mia viva Idea troppo è difforme.
Anch’io giovane fui (tal fui davvero,
O me il pensier dell’altrui vita illude?)
Anch’io l’anima un tempo orba di senno
(Ahimè, questa divina anima, in cui
Tutto si assomma e si rispecchia il mondo!)
In tra le fiamme del piacer gittai
Qual destriero nel rogo ove si strugge
Il signor che lo resse; io come schiavo
Trepido, muto e con le carni a brani.
D’un feroce padron sentii la sferza;
Io ebbrezza provai de la regale
Podestà, cieca dea che in gemmeo cocchio
Da fameliche tigri a balzi tratto,
Sè stessa adora, e di fiammanti solchi
Le protese al suo passo anime impiaga
Correva il mio pensier di nembo in nembo
Come saetta insanguinata, e mare
Tempestoso notturno era il cor mio.
Ma la serenità venne, e si assise
Su la mia vita, qual colomba in cima
D’arbor cui flagellava or ora il vento;
L’intelligenza mia lago s’è fatta
Che difeso da’ nembi il ciel ripete.
Che vuole Indra da me? Qual de’ suoi doni
E de la tua beltà cura aver dee
Chi beltà più sovrana e men fallaci
Beni da tempo in libertà fruisce!
Torna, o leggiadra, al vincitor di Bala;
I suoi doni riporta, e l’assecura,
Che radicato nel saper de’ Vedi
Ha Visvámitra il core; erta ed algente
Sorge la fronte sua come la cresta
Del gigante Imalaj; vede il suo ciglio
L’anima delle cose; e di codeste
Frodi placidamente ecco sorride.

     Le più vaghe parole, i più soavi
Allettamenti, i filtri e le malíe,

Ond’era ne’ tre mondi Amba famosa,
Adoprò tutti; ma qual rupe immoto
Stette l’austero a’ rinnovati assalti
Dell’infida beltà; fin che troncando
L’opre e gi’ indugi: Orsù, le disse, all’alta
Magion ritorna, onde movesti; o ch’io,
Col poter che mi diè la mia saggezza,
Qui su l’istante il tuo bel corpo impietro!


II.


     Crucciata ella partì, nè d’Indra un dardo
Tanto le avrebbe penetrato il core
Quanto il dolor de la sconfitta. Irato
Partissi anch’ei da la foresta il nume,
E d’un giovane arcier preso l’aspetto,
S’introdusse non visto (agl’innocenti
Soli è il sembiante degli Dei concesso)
Nella reggia d’Ismano. Avea costui
Di Visvámitra il regno invaso un tempo,
Oltraggiata la sposa, il figlio ucciso;
E nonostante opre sì ree, tranquillo
Su l’usurpato trono i dì traeva.
Ma tal d’una sua freccia Indra il percuote
Ne’ visceri del cor, che un improvviso
Rimorso, un’ansia paurosa, un bieco
Deliramento gli travolge il senno.
Abbandona la reggia, e solo, inerme,
Peregrinando ove la furia il porta,
Del saggio asceta al santuario arriva.
Sperava il dio, che all’inatteso aspetto
Dell’eversor di sue fortune, ardesse
Di Visvámitra il cor d’ira improvvisa,
E tutto a un’ora della sua saggezza,
Sì tremenda agli Dei, perdesse il frutto.
Ma di pietà non di furor s’accese
L’animo generoso, allor ch’a’ suoi
Piedi contorto come verme e in pianto
Quel tapino mirò, che d’ogni umana
Conoscenza e dal vero esser diviso,
Non ravvisava il suo signor tradito,
Ma un Brámano il credea, che dall’orrende
Colpe e dal tarlo, ond’aven roso il fianco,
Tergere e liberar tosto il potesse.
Sollevò da la polvere la fronte
Del supplicante; appresso a lui si assise
Silenzíoso; e meditava a quale
Fragile ramo, a qual filo sottile
Lo stato e il senno del mortal si attiene.

     Ruppe in singulti il penitente, e in voci
Di terrore affannose e di preghiera
Noverava un per uno i suoi delitti:
Del mio signore la consorte indussi
Al maleficio; l’innocente prole
Gli trucidai con questa mano; il regno
Che dagli avi tenea tutto gl’invasi;
Di sacrilegio l’accusai dinanzi
Al popolo sedotto, e col favore
D’empj ministri e sacerdoti abjetti,
Fede e regno non pur, ma gloria ottenni.
Temuto fui; pago regnai; la voce
De’ miei delitti mi giungea com’eco
D’altra età, d’altra vita; il pensier mio,
Rinnovato dall’aura incantatrice
Della possanza, rivestito a festa
S’era di fiori inebbríanti, i cui
Colori ricoverto avean le tracce
Delle mie colpe, e il cui profumo acuto
Soffocato avea tutti i miei ricordi.
Chi l’incanto spezzò dell’oblíosa
Ebbrezza mia? Chi mi confisse in core
Questa punta d’acciaro, onde stramazzo

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Ululando al tuo piè come elefante
Ferito a morte? Un bieco iddio per fermo
A guardare entro a me gli occhi miei spinse,
Ed un baratro immenso entro me vidi
Brulicante di serpi. Ivi travolto
Vertiginosamente il pensier mio
Precipita nell’ombra; e s’alcun lume
Vi guizza mai, centuplicata intorno
Da strani specchi profondarsi, senza
Limite, la mia tetra anima io miro
Ahi, nè più solo io son! Vedi? a’ miei lati
Una turba, un esercito si addensa
Di Ràcsasi voraci, a cui son pasto
Le mie carni, il mio core. E non per tale
Strazio si smorza la memoria mia,
Sanguigna face in un sepolcro immota:
Non si spegne la vita, anzi riceve
Da perpetui dolori altro alimento!
O gloríoso Muni, ecco a te vengo,
A te mi prostro; abbi pietà! Risplende
Sul capo tuo la sfavillante luce
Dell’ascetica possa; e tu da questa
Notte di pianto il viver mio redimi!

     Tre dì stette in silenzio; al quarto giorno
Visvámitra gli disse: Io ti concedo
Di ravvisarmi; e su l’umilíato
Capo del penitente il dito impose.
Udì la voce conosciuta, il volto
Ravvisò del tradito, e con sbarrate
Ciglia immobil restò, nè detto alcuno
Fuor che un alto barrito Isman profferse.
Ma poi che la smarrita anima il volo
Pauroso raccolse (e le splendea
Nitida e più che mai salda la mente),
Prosternato parlò: Mio re, mio dio,
Come dir ti dovrei, se al servo indegno
Che a te l’alma squarciò l’anima rendi?
A la tua vista, o venerato, un fiume
Di luce inonda la funerea notte
Della mia vita, e ’l cor palpita e s’apre
Purificato a un’esistenza nova,
Odimi, o Risci intemerato, e sdegno
Non saver del mio detto, ove conforme
Al tuo volere, al mio dover non suoni.
Riedi al trono ch’è tuo: riedi a’ palagi
Ch’io disertai con le mie colpe; torna
All’impero de’ tuoi! Qual de le genti
Ch’io già ti ribellai, sapendo il vero,
Vorrà sottrarsi al tuo poter? Verranno
Tutti i popoli a te, come smarriti
Peregrini per l’alte ombre d’un bosco,
A un lume che tra l’ombre arda improvviso;
Splenderà la tua gloria al par del sole,
Quando, per le città floride, assiso
Tranquillamente sovra un trono d’oro,
Passerai trionfante; ed io, beato
D’esser tuo servo e di morirti al piede,
Aspetterò che sotto a le tue ruote
Beva l’arida polve il sangue mio.

     Così parlava Ismano; e le profferte
Tentatrici ispirando, Indra godea.
Ma sorridendo un tal sorriso oscuro,
Visvámitra rispose: È del mortale
La ragione abusar che un dio gli assente.
Ecco, la possa mia l’ombre dilegua
Del tuo smarrito intendimento, e insane
Voci balbetti, e la saggezza offendi!
Chi più di me, quando strisciava ancora
Per le valli dell’ombra il pensier mio,
Bevve a la coppa del poter? Chi tutto
Il sentier della gloria ebbe percorso
Con vol più lesto e con più fausto evento?
Allo sguardo degli uomini tant’alto
Sòrsi, che sotto al mio splendor parea
Vespertino vapor l’altrui splendore.
Ma poi che il foco del dolor, dal sonno
In che stolto giacea, m’ebbe riscosso,
E l’uomo e il mondo e il mio destin compresi,
Un’ascetica forza allor mi porse,
Tal signoria, che servitude e morte
Sarebbe ad essa de’ tre mondi il regno,
Or va’, ma serba un mio consiglio: al trono,
Fuor che il saggio innocente, ogn’uomo aspiri:
Tu, se di pace e di saggezza hai sete,
Dal comandare e dal servir t’astieni.


III.


     Inconcussa così, benchè dall’arti
D’Indra tentata, grandeggiava al sole
Dell’austero Visvámitra la mente:
Al Merù somigliava allor che puro
Nell’étera opalino il capo immerge,
Mentre, da terra vaporando, un grigio
Fiotto di nebbia gli serpeggia al piede.
Non però dell’occhiuto Indra il geloso
Proponimento s’addormía: qual nume
Stargli a fronte potrebbe, ove l’Austero
Non fosse dal perfetto éremo tolto?
Ma da quante gli ordía reti sottili,
Sempre accorto l’uom saggio il piè ritrasse.
Pur venne il dì che lo sconfitto nume,
Abbandonato al vincitore il campo,
Ad opere più degne il pensier volse;
E Visvámitra allora, ei che le trame
Avea del Deva onniveggente eluse,
Al poter s’inchinò d’un cor mortale.

     Chi tal fáscino oprò? Fu la canuta
Amaracanta, venerabil madre
D’innocenti figliuoli a soffrir nati
L’ira de’ forti e de’ felici il riso,
Quanto ne’ gorghi del dolor sommersa
La gran donna durò, chi in cor la brama
Le seminò d’interrogar la possa
Dell’Asceta divino, altri nol seppe.
Si levò pria del sole; e come il raggio,
Primo sentì su le pupille estinte,
Protese ambe le palme, e in lamentose
Voci dal petto una preghiera espresse:
Io te, Savîtri dalle mani d’oro,
Te, sole padre, io derelitta invoco
Perchè tu mi protegga. Il pensier mio
Ravviva tu, che vèrsi in copia a tutti
I domestici beni, ahi solo a’ miei
Figli, a’ miei figli arcanamente avaro!
Che colpa è in lor? Chi li condanna al pianto?
Io lo saprò dal sapíente austero,
A cui, non senza un alto auspicio, è vòlto
Il passo mio: ma tu fra tanto, o Padre
Che per le otto plaghe ampie del cielo,
Su le tre regíoni e su le sette
Riviere il lume di tue grazie abbondi,
Tu conduci una madre a cui l’immenso
Versato pianto il caro lume ha tolto!

     Così pregando s’ avviava, e un raggio
Mistico la scorgea per l’erme strade,
S’apría la selva riverente al passo
Dell’angusta infelice; e da’ secreti
Còvi le belve si affacciavan, l’alta
Donna ammirando con gemmanti ciglia.

     Quando giunse al perfetto éremo, assorta
Del gloríoso vate era la mente

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In un pensier d’immensa pace; fosche
Sedeano l’ombre intorno a lui, ma chiara,
Qual da un’intima luce irradiata,
La sua fronte alla luna alto splendea.
Si trasse a lui l’augusta vecchia, e inteste
Sul capo in rispettoso atto le mani,
Così prese a parlare: O luminosa
Fonte d’ogni virtù, colonna a cui
La verità, l’umanità si appoggia,
A’ piedi tuoi supplice io vengo. In pianto
Vivon da innumerati anni i miei figli
Sotto ad immane signoria. Qual dio
Piegar potea le lor cervici al giogo
Di tanta crudeltà? Quando avrà fine,
Se pure è un fine al danno mio prescritto,
L’immeritata servitù? Dispersi
Per le regioni della terra, ignoti
All’amore, alla pace, erran divisi
D’ogni delizia della vita, e orrendo
Suona intorno, il lor nome. Eppur, mel credi,
Innocente hanno il core, acre l’ingegno.
Forti le braccia alla fatica avvezze,
L’animo tollerante e al bene intèso.
Chi vantar può, fra quanti cori ha il mondo,
Di lor più sobrio e più frugal costume?
Poco chiedono o nulla, e il poco e il nulla
A chi vive di lor sembra soverchio;
Indi supplizio è la lor vita, e strazio
Perpetuo a me che li portai nel fianco.
O sapíente, a te, simile a’ Suri,
È la dottrina e la virtù dischiusa;
Ma il tuo saper, la tua virtù che giova,
Se gli altrui danni a mitigar non vale?
O signor del castigo, i nostri mali
Vendichi alfine un tuo consiglio; ciechi
Desolati noi siamo, e la parola
Della luce aspettiam da la tua bocca!

     Così dicendo, la canuta fronte
Prosternò su la polve, e dell’Austero
I sandali abbracciava. Ad una ad una
Cadean su la quíeta anima i detti
Dell’augusta infelice, e un turbamento
Strano su su dai fondi imi salía,
E n’offuscava a poco a poco il volto.
Raddoppiò l’astinenze e le preghiere

Il fluttuante spirito: che nuove
Reti al suo passo il dio geloso ordisca?
Vigile custodì la procellosa
Mente, non forse un Rácsaso omicida
Gli usurpasse nel sonno i regni immensi;
Ma fra le preci della veglia austera
Gli squillava nel cor senza mai posa,
Gli echeggiava ognintorno in suon d’affanno:
Il tuo saper, la tua virtù che giova,
Se gli altrui danni a mitigar non vale?

     E una terra vedea livida, immensa
Brulicante d’umani esseri in pianto.
Non eran quelli i derelitti figli
De la Dolente maestosa? Ignudi,
Maceri procedean sotto a la sferza
Dei nembi; e tutte piaghe avean le membra.
Gemean stridendo da le piaghe orrende
L’anima a stilla a stilla, onde la terra
Pingue ondeggiava di purpurea mèsse.
E in ogni piaga era un vampiro; e dietro
A la caterva estenuata un mostro
Divorava ghignando il gran ricolto.
Rabbrividía l’inclito asceta; ed ecco
Una montagna solitaria in mezzo
Ad un deserto sconfinato; nitido
Sgorga da la sua cima un vitreo fiume,
Che digradando placido, le schiette
Linfe a la sabbia e il suono all’aure sperde.
E dal deserto s’inalzava un grido:
«Il tuo saper, la tua virtù che giova,
Se gli altrui danni a mitigar non vale?»

     Durò molto la pugna, onde fu campo
L’anima pura del Veggente. Alfine
Mutato ei sorse, e con sorriso mesto
E modeste parole all’orba antica
Un suo vittorioso animo espresse:
Teco, o buona, verrò; vedranno i tuoi
Figli l’aspetto mio; la mia parola
Suonerà fra le loro opre servili;
E conforto ne avran. Godano i numi
Quella perfezion vana, a eni tanto
Or or, superbo, io mi tenea da presso:
Ad uom nato mortal, sol fra’ mortali
Pensar, pugnare e dolorar si aspetta!