Poemetti (Rapisardi)/Il passaggio dell'Imperatore

Il passaggio dell’Imperatore

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Il passaggio dell’Imperatore
Calcidonio L'asceta
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IL PASSAGGIO DELL’IMPERATORE.


Di filosofo inetto altri mi dia
     Titolo, e ghigni: col mio capo io penso,
     E quel che penso in chiare voci esprimo.
     Demagogo non sono; odiai già tempo
     La plebe, i preti e i re, che della plebe
     Son più perfidi spesso e più codardi;

     Or non odio nessuno; e giacchè molto
     A compatire, ad ammirar mai nulla
     Il più saggio degli uomini m’apprese,
     La bontà lodo sopra tutto, e quando
     Il dolor la flagella, il cor mi piange.
     Acre maestra la sventura è sempre

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     Ma provvida talor: come la morte
     Essa gli uomini uguaglia. Hai tu veduto
     L’infermo imperator? Tutto alla nuova
     Del suo venir si riversò il villaggio
     Nella città ch’ei traversar dovea,
     Ed io con gli altri. Non vulgar talento
     Di festeggiare il novo eletto o bieca
     Brama di contemplar la sua disfatta
     Sembianza mi traea, ma un sentimento
     Indefinito, non saprei, che forse
     Troppo lontan dalla pietà non era.
     Al sindaco mi strinsi: egli dovea
     Complimentarlo; e il poveretto al solo
     Pensier, ch’egli, egli proprio era sul punto
     D’appresentarsi ad un sovran sì grande,
     Sudava sangue come Cristo all’orto.
     Non inutil gli fui: col bronzeo petto
     Spezzai la folla, e tra gli evviva e gl’inni,
     Che assordavano il cielo, a pochi passi
     Dal carrozzone imperíal giungemmo.
     L’imperatore si tenea diritto
     Militarmente a lo sportel; non era
     Pallido in volto ma cinereo; quasi
     Lama di piombo s’affilava il naso;
     E la barba, che prima era sì molle,
     Arida irrigidía quale radici
     Di morta pianta. Simili a faville
     Tra l’ammucchiate ceneri d’un veggio
     Gli lustravano gli occhi, ed uno sguardo
     Vago, lento movea, come se tutto
     Fosse il popolo e il mondo a lui straniero.
     Tale in chiesa vid’io rizzarsi a mezza
     Bara fra neri drappi un infelice,
     Cui la pietà del frettoloso erede

     Avea prima dell’ora a Dio spedito,
     Fisar vitreo lo sguardo in fra gli accesi
     Ceri e i becchini, e balbettar parole
     Incomprese: fuggía l’inorridita
     Ciurma, e urlando ammontavasi alle porte
     Incapaci a tal gregge; anch’esso il prete
     Volse il tergo all’altar, non so che strani
     Segni all’aria trinciando. Il redivivo
     Boccheggiante ricadde, e non gli spiacque,
     Credo, il ritorno a la quíete immensa,
     Pari in tutto a costui mi parve allora
     Quest’infelice imperator, che in tanta
     Pompa, fra tanti plausi (ei che già mezzo
     Nella tomba del padre era disceso)
     S’avvíava a salir sul più temuto
     Trono d’Europa. Si riscosse un tratto,
     Quando iterato da la folla il nome,
     Di Sadova echeggiò; volse sgomènto
     Lo sguardo, quasi a ricercar sè stesso,
     E portando la man lenta al cappello,
     Un sorriso ineffabile sorrise.

Mi scevrai dalla turba, e del tranquillo
     Borgo ripresi volentier la via.
     Fresco odorava aprile; in su’ boscosi
     Greppi rosea sfioría l’ultima luce,
     E, come filo d’arrotata falce,
     Nell’azzurro lucca la nova luna.
     Vaghe dintorno a me ne la quíeta
     Ombra sfumavan le sembianze; tutto
     S’immergea nel silenzio ampio; smarrito
     Veleggiava il pensier, mentre lontano
     Della rombante vaporiera il grido
     Lamentevole all’aria si perdea.