Poemetti (Rapisardi)/Le due voci

Le due voci

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L'asceta Don Josè
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LE DUE VOCI.


I.


Brulica per la valle orrida a notte
     La querula dei nani orda smarrita,
     E in opere infeconde, in empie lotte,
     Misera più che rea, spreca la vita.

Onde venne! Ove andrà? Qual forza immane
     Qui la domò? Chi del suo mal si piace?
     Chi vieta agli egri corpi il tetto e il pane,
     Al cor l’amore, all’anima la pace?

Ella nol sa: le faticose spalle
     Curva fremendo all’incompreso incarco,
     E tra’ macigni, ond’è chiusa la valle,
     Trovare agogna o aprir di forza un varco.

«Non è questa la via! Non questa è l’opra
     Che disserri a’ nostri occhi il sole e il vero?
     Non può l’ombre fugar che ne stan sopra
     Forza unita di braccia e di pensiero?»

Ed ecco in sen de le crocchianti selve
     (Fu caso o tua virtù, livida greggia?)

     Tra una fuga di fredde ombre e di belve,
     Il gran liberator foco lingueggia.

Ecco, estratta da’ sotterranei chiostri,
     La ferrea forza i polsi all’armi avvezza:
     Se non che, pria di domar monti e mostri,
     Dei discordi fratelli i petti spezza.

E giù da’ rami tenebrosi, a torme,
     Giù da le rupi a’ mal contesi valli
     Piombano congiurate ibride forme
     Tra d’augelli rapaci e di sciacalli.

Suona fremiti e pianti il bujo intenso;
     S’apre l’abisso a un improvviso lume:
     E da’ macigni inespugnati immenso
     Diroccia e ferve rosseggiando un fiume.


II.


Dej salve, nell’erma radura
     Nel torbido cielo invernale,
     Soave lucente figura
     Che tremi librata su l’ale!

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A te della turba affannosa
     Si levano i cigli stupiti;
     E il ciel, che si tinge di rosa,
     Tu, calma, agl’indocili additi.

«O stella che il baratro indori,
     Or ch’alto baleni a’ nostri occhi,
     AI cielo s’innalzano i cori,
     Si piegan tremando i ginocchi.

Non forse l’arcana parola
     Che sciolga l’incanto ne rechi?
     Non puoi del futuro tu sola
     La luce sorridere a’ ciechi?

Audaci! E tentammo col gramo
     Pensier l’ineffabile Enigma!
     Ne’ cori ancor l’ombra ne abbiamo,
     Ne abbiam su le fronti lo stigma.

Che giova, tapini, l’assalto
     De l’irto castello del Vero,
     Se occulta, recondita è in alto
     La chiave del ferreo Mistero?

Osammo; or dell’opera truce
     Ricevi, tu buona, l’ammenda:
     Su noi de la Fede la luce,
     Qual niveo lenzuolo, si stenda!»

E mentre pentita fra’ dumi
     L’invalida folla si atterra,
     Si popola il cielo di numi,
     Di biechi padroni la terra.


III.


     «O macera stirpe schernita,
A cui mille vampiri apron le vene,

     Che fabbrichi, in odio alla vita,
Spade a’ tiranni, a’ polsi tuoi catene;

     Tu ch’ebbra d’un mistico errore,
Dài retaggio a’ tuoi figli il proprio danno,
     Mangiando, qual pane, il dolore,
Bevendo, come vin pretto, l’inganno;

     Io teco nell’ombre cresciuta,
Del tuo sangue nutrita e del tuo pianto,
     Non morta per empia cicuta,
Non da ceppi o da roghi il petto affranto,

     Io, vera de’ secoli erede,
Guidar ti posso a’ valichi sublimi,
     Io sola redimerti ho fede,
L’ardua chiostra spezzando in cui ti adimi.

     Impero d’inferni e di cieli
Speri indarno che t’offra: io l’ho distrutto;
     (Oh improvvido senno, se aneli
Sovvertir l’alta idea ch’anima il Tutto!)

     Ma il ciel della vita, ma il regno
Della terra e del mar ben t’è concesso,
     Pur ch’entro al benefico segno
Il tuo conscio pensier domi sè stesso.

     Non armi, non odj: la face,
Ch’arde nella mia destra e cresce a’ venti,
     È raggio d’amore e di pace,
Giustizia e libertà reca a’ volenti.

     O stirpe rejetta, chè stai?
Così dal mondo ogn’altro mal dilegui,
     Fu l’onta e lo spasimo assai:
La Scíenza son io, sorgi e mi segui!»