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     Digrada, campo di ligustri, il ventre:
     E muscolose le marmoree gambe
     Esultano a’ giocondi occhi del sole.
     Pispigliavano l’aure al suo passaggio;
     S’inchinavano i fiori; trasognata
     Ella incedea co’ grandi occhi socchiusi
     E con le labbra a l’aura semiaperte,
     Qual se dal cuore emerso e incerto al varco
     V’alíasse un sorriso, un canto, un bacio.

Tale il santo la vide, e un caldo fiotto
     Di giovinezza inturgidir le vene
     Sentì; ma tosto si represse. Ansava
     Su per l’erta la ninfa, e superato
     L’ultimo giogo, innanzi al pio depose
     L’aurea canestra, e con soave accento:
     Salve, o padre, gli disse; Indra da’ mille
     Occhi te vide estenuato, e questi
     Insaporati ne’ pomarj eterni
     Doni a te manda: un’immortale essenza
     Infuse in essi innamorato il sole,
     Tal che le forze rifiorire e balda
     Vigoreggiar la giovinezza in core
     Sentirai tosto che di lor ti cibi.

E Visvámitra a lei così rispose:
Creatura leggiadra, e chi potrebbe
Mirar la tua beltà senza che al cielo
L’animo si sollevi, e al provvidente
Generator de la bellezza inneggi?
Voce sublime è la beltà, che il triste
Mortal su l’erta de la vita incuora,
Raggio divino entro il cui roseo lume
Si coloran le umane anime, e vanno
Per mille versi turbinando al cielo;
Ma la beltà che un bieco animo veste
Dalla mia viva Idea troppo è difforme.
Anch’io giovane fui (tal fui davvero,
O me il pensier dell’altrui vita illude?)
Anch’io l’anima un tempo orba di senno
(Ahimè, questa divina anima, in cui
Tutto si assomma e si rispecchia il mondo!)
In tra le fiamme del piacer gittai
Qual destriero nel rogo ove si strugge
Il signor che lo resse; io come schiavo
Trepido, muto e con le carni a brani.
D’un feroce padron sentii la sferza;
Io ebbrezza provai de la regale
Podestà, cieca dea che in gemmeo cocchio
Da fameliche tigri a balzi tratto,
Sè stessa adora, e di fiammanti solchi
Le protese al suo passo anime impiaga
Correva il mio pensier di nembo in nembo
Come saetta insanguinata, e mare
Tempestoso notturno era il cor mio.
Ma la serenità venne, e si assise
Su la mia vita, qual colomba in cima
D’arbor cui flagellava or ora il vento;
L’intelligenza mia lago s’è fatta
Che difeso da’ nembi il ciel ripete.
Che vuole Indra da me? Qual de’ suoi doni
E de la tua beltà cura aver dee
Chi beltà più sovrana e men fallaci
Beni da tempo in libertà fruisce!
Torna, o leggiadra, al vincitor di Bala;
I suoi doni riporta, e l’assecura,
Che radicato nel saper de’ Vedi
Ha Visvámitra il core; erta ed algente
Sorge la fronte sua come la cresta
Del gigante Imalaj; vede il suo ciglio
L’anima delle cose; e di codeste
Frodi placidamente ecco sorride.

     Le più vaghe parole, i più soavi
Allettamenti, i filtri e le malíe,

Ond’era ne’ tre mondi Amba famosa,
Adoprò tutti; ma qual rupe immoto
Stette l’austero a’ rinnovati assalti
Dell’infida beltà; fin che troncando
L’opre e gi’ indugi: Orsù, le disse, all’alta
Magion ritorna, onde movesti; o ch’io,
Col poter che mi diè la mia saggezza,
Qui su l’istante il tuo bel corpo impietro!


II.


     Crucciata ella partì, nè d’Indra un dardo
Tanto le avrebbe penetrato il core
Quanto il dolor de la sconfitta. Irato
Partissi anch’ei da la foresta il nume,
E d’un giovane arcier preso l’aspetto,
S’introdusse non visto (agl’innocenti
Soli è il sembiante degli Dei concesso)
Nella reggia d’Ismano. Avea costui
Di Visvámitra il regno invaso un tempo,
Oltraggiata la sposa, il figlio ucciso;
E nonostante opre sì ree, tranquillo
Su l’usurpato trono i dì traeva.
Ma tal d’una sua freccia Indra il percuote
Ne’ visceri del cor, che un improvviso
Rimorso, un’ansia paurosa, un bieco
Deliramento gli travolge il senno.
Abbandona la reggia, e solo, inerme,
Peregrinando ove la furia il porta,
Del saggio asceta al santuario arriva.
Sperava il dio, che all’inatteso aspetto
Dell’eversor di sue fortune, ardesse
Di Visvámitra il cor d’ira improvvisa,
E tutto a un’ora della sua saggezza,
Sì tremenda agli Dei, perdesse il frutto.
Ma di pietà non di furor s’accese
L’animo generoso, allor ch’a’ suoi
Piedi contorto come verme e in pianto
Quel tapino mirò, che d’ogni umana
Conoscenza e dal vero esser diviso,
Non ravvisava il suo signor tradito,
Ma un Brámano il credea, che dall’orrende
Colpe e dal tarlo, ond’aven roso il fianco,
Tergere e liberar tosto il potesse.
Sollevò da la polvere la fronte
Del supplicante; appresso a lui si assise
Silenzíoso; e meditava a quale
Fragile ramo, a qual filo sottile
Lo stato e il senno del mortal si attiene.

     Ruppe in singulti il penitente, e in voci
Di terrore affannose e di preghiera
Noverava un per uno i suoi delitti:
Del mio signore la consorte indussi
Al maleficio; l’innocente prole
Gli trucidai con questa mano; il regno
Che dagli avi tenea tutto gl’invasi;
Di sacrilegio l’accusai dinanzi
Al popolo sedotto, e col favore
D’empj ministri e sacerdoti abjetti,
Fede e regno non pur, ma gloria ottenni.
Temuto fui; pago regnai; la voce
De’ miei delitti mi giungea com’eco
D’altra età, d’altra vita; il pensier mio,
Rinnovato dall’aura incantatrice
Della possanza, rivestito a festa
S’era di fiori inebbríanti, i cui
Colori ricoverto avean le tracce
Delle mie colpe, e il cui profumo acuto
Soffocato avea tutti i miei ricordi.
Chi l’incanto spezzò dell’oblíosa
Ebbrezza mia? Chi mi confisse in core
Questa punta d’acciaro, onde stramazzo