Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/522

510 POEMETTI

Ululando al tuo piè come elefante
Ferito a morte? Un bieco iddio per fermo
A guardare entro a me gli occhi miei spinse,
Ed un baratro immenso entro me vidi
Brulicante di serpi. Ivi travolto
Vertiginosamente il pensier mio
Precipita nell’ombra; e s’alcun lume
Vi guizza mai, centuplicata intorno
Da strani specchi profondarsi, senza
Limite, la mia tetra anima io miro
Ahi, nè più solo io son! Vedi? a’ miei lati
Una turba, un esercito si addensa
Di Ràcsasi voraci, a cui son pasto
Le mie carni, il mio core. E non per tale
Strazio si smorza la memoria mia,
Sanguigna face in un sepolcro immota:
Non si spegne la vita, anzi riceve
Da perpetui dolori altro alimento!
O gloríoso Muni, ecco a te vengo,
A te mi prostro; abbi pietà! Risplende
Sul capo tuo la sfavillante luce
Dell’ascetica possa; e tu da questa
Notte di pianto il viver mio redimi!

     Tre dì stette in silenzio; al quarto giorno
Visvámitra gli disse: Io ti concedo
Di ravvisarmi; e su l’umilíato
Capo del penitente il dito impose.
Udì la voce conosciuta, il volto
Ravvisò del tradito, e con sbarrate
Ciglia immobil restò, nè detto alcuno
Fuor che un alto barrito Isman profferse.
Ma poi che la smarrita anima il volo
Pauroso raccolse (e le splendea
Nitida e più che mai salda la mente),
Prosternato parlò: Mio re, mio dio,
Come dir ti dovrei, se al servo indegno
Che a te l’alma squarciò l’anima rendi?
A la tua vista, o venerato, un fiume
Di luce inonda la funerea notte
Della mia vita, e ’l cor palpita e s’apre
Purificato a un’esistenza nova,
Odimi, o Risci intemerato, e sdegno
Non saver del mio detto, ove conforme
Al tuo volere, al mio dover non suoni.
Riedi al trono ch’è tuo: riedi a’ palagi
Ch’io disertai con le mie colpe; torna
All’impero de’ tuoi! Qual de le genti
Ch’io già ti ribellai, sapendo il vero,
Vorrà sottrarsi al tuo poter? Verranno
Tutti i popoli a te, come smarriti
Peregrini per l’alte ombre d’un bosco,
A un lume che tra l’ombre arda improvviso;
Splenderà la tua gloria al par del sole,
Quando, per le città floride, assiso
Tranquillamente sovra un trono d’oro,
Passerai trionfante; ed io, beato
D’esser tuo servo e di morirti al piede,
Aspetterò che sotto a le tue ruote
Beva l’arida polve il sangue mio.

     Così parlava Ismano; e le profferte
Tentatrici ispirando, Indra godea.
Ma sorridendo un tal sorriso oscuro,
Visvámitra rispose: È del mortale
La ragione abusar che un dio gli assente.
Ecco, la possa mia l’ombre dilegua
Del tuo smarrito intendimento, e insane
Voci balbetti, e la saggezza offendi!
Chi più di me, quando strisciava ancora
Per le valli dell’ombra il pensier mio,
Bevve a la coppa del poter? Chi tutto
Il sentier della gloria ebbe percorso
Con vol più lesto e con più fausto evento?
Allo sguardo degli uomini tant’alto
Sòrsi, che sotto al mio splendor parea
Vespertino vapor l’altrui splendore.
Ma poi che il foco del dolor, dal sonno
In che stolto giacea, m’ebbe riscosso,
E l’uomo e il mondo e il mio destin compresi,
Un’ascetica forza allor mi porse,
Tal signoria, che servitude e morte
Sarebbe ad essa de’ tre mondi il regno,
Or va’, ma serba un mio consiglio: al trono,
Fuor che il saggio innocente, ogn’uomo aspiri:
Tu, se di pace e di saggezza hai sete,
Dal comandare e dal servir t’astieni.


III.


     Inconcussa così, benchè dall’arti
D’Indra tentata, grandeggiava al sole
Dell’austero Visvámitra la mente:
Al Merù somigliava allor che puro
Nell’étera opalino il capo immerge,
Mentre, da terra vaporando, un grigio
Fiotto di nebbia gli serpeggia al piede.
Non però dell’occhiuto Indra il geloso
Proponimento s’addormía: qual nume
Stargli a fronte potrebbe, ove l’Austero
Non fosse dal perfetto éremo tolto?
Ma da quante gli ordía reti sottili,
Sempre accorto l’uom saggio il piè ritrasse.
Pur venne il dì che lo sconfitto nume,
Abbandonato al vincitore il campo,
Ad opere più degne il pensier volse;
E Visvámitra allora, ei che le trame
Avea del Deva onniveggente eluse,
Al poter s’inchinò d’un cor mortale.

     Chi tal fáscino oprò? Fu la canuta
Amaracanta, venerabil madre
D’innocenti figliuoli a soffrir nati
L’ira de’ forti e de’ felici il riso,
Quanto ne’ gorghi del dolor sommersa
La gran donna durò, chi in cor la brama
Le seminò d’interrogar la possa
Dell’Asceta divino, altri nol seppe.
Si levò pria del sole; e come il raggio,
Primo sentì su le pupille estinte,
Protese ambe le palme, e in lamentose
Voci dal petto una preghiera espresse:
Io te, Savîtri dalle mani d’oro,
Te, sole padre, io derelitta invoco
Perchè tu mi protegga. Il pensier mio
Ravviva tu, che vèrsi in copia a tutti
I domestici beni, ahi solo a’ miei
Figli, a’ miei figli arcanamente avaro!
Che colpa è in lor? Chi li condanna al pianto?
Io lo saprò dal sapíente austero,
A cui, non senza un alto auspicio, è vòlto
Il passo mio: ma tu fra tanto, o Padre
Che per le otto plaghe ampie del cielo,
Su le tre regíoni e su le sette
Riviere il lume di tue grazie abbondi,
Tu conduci una madre a cui l’immenso
Versato pianto il caro lume ha tolto!

     Così pregando s’ avviava, e un raggio
Mistico la scorgea per l’erme strade,
S’apría la selva riverente al passo
Dell’angusta infelice; e da’ secreti
Còvi le belve si affacciavan, l’alta
Donna ammirando con gemmanti ciglia.

     Quando giunse al perfetto éremo, assorta
Del gloríoso vate era la mente