Poemetti (Rapisardi)/L'Isola

L'Isola

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Circe Calcidonio
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L’ISOLA.


S’incolorava il primo fior del giorno,
     Quando dell’incantata isola a fronte
     Giunse la nave peregrina; il nostro
     Core balzò in tumulto, e su gli stanchi
     Volti ad un tempo la letizia nova
     E il novo riso del mattin si pinse.
     Rosea su l’onde porporine, come
     Sul letto di víole ignuda ninfa,
     L’isoletta stendeasi; e pari a tazza
     D’ónice colma di votive essenze,
     S’apría fumante di fragranze il porto.

Appoggiata al mio braccio ella con lieve
     Passo e con infantile ansia la tolda
     Lasciò non senza un dolce sguardo ai lochi
     Non ignari dei nostri ultimi affanni;
     E traversando con securo piede
     L’asse che dalla nave a la vicina
     Riva pendeva alto su l’acque e al nostro
     Peso cedea con quasi uman lamento,
     Balzò giojosa a terra, e a me, che assorto
     In un dolce pensier veníale appresso,
     Tese le aperte braccia, e su la bocca,
     Tal era il patto, il primo bacio impresse.


Deserta a prima vista era ognintorno
     La terra, se deserto è dove tanta
     Pompa di vita, sotto un ciel sì terso
     E in sì varia beltà spiega Natura;
     Ma umana ombra non mai certo all’opposto
     Sole usurpato avea le soffici erbe,
     Ch’ebbre di voluttà s’eran per tutto,
     Qual molle veste ad un bel corpo, apprèse.
     In digradante sen, come teatro
     Roman s’incurva ad oríente il lido;
     E un intatto sentier quindi a un opaco
     Bosco a le spalle d’un burrone appeso,
     Quinci a una fila di soavi còlli
     Evaníenti ne l’azzurro adduce,
     Sgorga tra questi un fiume, onde il più vago
     Non còrse mai: rompe da pria tra fosche
     Rupi ed impetuoso si convelle
     In un bollor di vivo argento; strani
     Alberi sopra a lui pendono, quali
     Sonnecchiosi giganti, e con le bieche
     Radici, che tra ciotti aridi e sabbie
     Prorompon dalle ripe in simiglianza
     Di sitibondi alligatori, tentano
     Il sacro fiume devíar. Fra l’irte

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     Branche la ríottosa onda per poco
     Spumante e rotta in vitrei sprazzi freme,
     Ma sprigionasi tosto e sì dirama
     Per la florida valle; indi in un piano
     Vasto, uniforme che col ciel confina,
     Adunandosi placida dilaga.
     Qui mollemente a’ zefiri si dondola
     Il braminico loto, socchiudendo
     I celesti occhi, calici di sogni;
     Qui l’ermetica foglia, onde Odisseo
     Far potè vana la circèa bevanda,
     Provocata dal fresco euro susurra.

Ci adagiammo alla riva; ed ella il apo
     Mansueto di terso oro e di rose
     Fantasticando mi posò sul petto.
     Una quíete languida invadea
     L’anima delle cose; e tale un suono
     Sorgea da le fugaci onde, che l’eco
     D’altr’età, d’altri mondi a noi parea.

Volgi, o fiume immortal, volgi i tuoi flutti.
     Ecco, al perpetuo murmure dileguasi
     Dal mio ciglio la terra; ecco, al sorriso
     Di costei novo ciel s’apre al mio core.


Volgi, o fiume immortal, volgi i tuoi flutti.
     Quell’io non son, che doloroso e stanco,
     Piegando il capo a’ torvi casi e agli anni,
     Calar vidi su me picea la notte?
     Una candida pace ora si stende
     Sovra l’anima mia; sorge una nova
     Fede, e la sera del pensier ravviva.
     Tal fra’ pallori d’un tramonto il bianco
     Espero nasce, e il cielo ultimo allieta.

Volgi, o fiume immortal, volgi i tuoi flutti,
     Ira e dolor non più: le procellose
     Punte, in cui ruppi generoso il fianco,
     (Nè già del sangue, onde le tinsi, io gemo)
     Da lontano rimiro, e perigliosa
     Meno e men triste a me la vita appare.
     Così ne’ chiari plenilunj un latteo
     Vapore irriga le ronchiose balze
     Di Mongibello, ed una indefinita
     Soavità le rocce ispide vela.

Volgi, o fiume immortal, volgi i tuoi flutti.
     Nel vano azzurro una sembianza: Amore;
     Nel tetro abisso una parola: Amore:
     Amor, goccia di pianto e di rugiada
     Nel fiume eterno, ne l’immenso mare.