Poemetti (Rapisardi)/Circe
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CIRCE.
Poi che l’eroe di multiforme ingegno
Dalla magica sponda il legno sciolse,
Tornò pensosa al rilucente albergo
E al suo telajo d’òr Circe si assise,
Circe, terribil dea che dall’austera
Itacense virtà prima fu vinta.
Pigra scorrea tra’ varíati stami
La spola, agile un dì; raro l’arguto
Pettine castigava il lento ordito,
Già che il pensiero della dea lontano
Veleggiava dall’opera e l’alata
Prora inseguía con le profonde ciglia.
Su l’inarato mare alto splendeva
Centuplicato dagli ondosi specchi
E dal palagio adamantino il Sole;
Ma non come già tempo ella esprimea
Dal niveo petto le squillanti voci:
Tutto intorno tacea, se non che il lene
Mormoreggiar de le bacianti spume
Mesceasi al canto del vicin querceto,
D’ombre largo e di cibo all’insolente
Mandra, che intrisa del circèo veleno,
Dell’esser primo e del mutato aspetto
Poca memoria e nessun danno avea.
Tutto quanto fu il dì, con mesta cura
Mirò la dea l’avventurosa vela;
Nè l’acume divin pria le fu scemo,
Che tra ’l vapore vespertin, cresciuto
Dal fumo dell’istante Erebo, quasi
In grembo al suo destin, quella s’immerse.
Un insolito affanno allor più volte
Le scosse il cor già sempre uguale, e pianto
Forse ella avría, se da la sua pupilla
Era il velarsi d’una tal rugiada.
Pur la faccia marmorea al cielo eresse,
E al Sol che grande e nitido pendea
Sul mar già fatto d’ametista, in voce
Supplichevole: O Sol, disse, o veggente
Padre, e tu Perse, veneranda prole
Dell’Oceán che tutto allaccia, oh s’io
Da voi non nacqui indarno, e di sì strana
Beltà non fui per mio ludibrio adorna,
Un mio prego ascoltate; e quando il nume
Di Giove o il poter vostro a voi nol vieti,
In mia sola mercè dategli effetto,
Sì che la cura io domi, onde son morsa
Veracemente, dacchè un uom mortale
Me vinse e il mio candido letto ascese.
Ah, da quel dì che il ferro ei strinse, e sopra
Minaccevol mi stette (onde, se volli
Dalle irate sue mani uscire illesa,
Abbracciar gli ebbi le ginocchia, e il giuro
Che gli Dei lega profferir, per cui
Nulla nel capo suo, ne’ suoi compagni
Co’ filtri mici più macchinar dovessi)
Ahi, da quel dì, quanto sia torto e vano
Questo poter che da voi m’ebbi, appresi!
È che mi giova, olimè, ch’io dell’umane
Sembianze spogli e di ferine cuoja
Stringa chi nulla, fuor che nell’aspetto,
Dissimigliante è dalle fere? Eccelsa
Virtù davvero inchinar capi indegni
Di mirar la tua faccia, etereo Sole!
Gloria sublime e invidíabil dote
Di setole innasprir, coprir di velli
Chi di pecora vile e di sannuto
Verro ha costume, e tal vive tra’ suoi
Che un grufolante gregge onta ne avrebbe!
Qual vittoria e qual pro? Le stalle, i boschi
E l’onde e l’aria di sì fatti servi
Io potessi gremir, quale al mio nome
Incremento verrebbe e all’esser mio?
Regni su plebi inconscienti e cose
Di lume orbe il mortal, cui spremer sangue
Ad impinguar sue polpe inerti è assai:
Bruto su bruti, altro a me vuolsi; e voi,
Se ingrata affatto non vi son, più degno
Scettro alla figlia apparecchiar dovreste.
Nè d’atro canto alla ferina sorte
Legar con bieca incantagion vorrei,
(O Sol che tutto vedi, entro mi leggi)
Chi di cor puro e di versuta mente,
S’altro in terra ne viva a costui pari,
Ch’io non so dir se per mio mal conobbi,
Privilegiato è dagli Dei cotanto
Che di gloria celeste il mondo alluma.
Del, come io dea trepida vissi a questo
Gramo tiglinolo di Laerte, gramo
Pe ’l viver suo, pe’ suoi travagli tanti,
Pe’ disfatti compagni e la remota
Sposa e il trono deserto; a un dio conforme,
Se al molteplice ingegno, al braccio invitto
È al cor maggiore alla fortuna io miri!
Dacchè l’intesi favellar, con vostra
Pace, o divini genitori, il dico,
Del mio potere ebbi dispetto; vuote
Restâr le coppe incantatrici, e sdegno
Provai non pur di quanti avean le ingorde
Fauci al maligno beveraggio aperte,
Ma dell’arte mia torva, onde sì vili
E sì vani al mio stato eran gli effetti.
Da quell’ora una brama il cor m’accese
Orgogliosa, il confesso, è però degna
Di me che nasco da cui tutto avviva:
Brama che cieca alimentai nel petto,
Finchè meco l’altéro ospite visse,
E ch’or feroce al suo partir prorompe,
E di lui mi tien luogo. Oh! se immortali
Giorni e virtù di trasformar mi dèste
Chi di pane si nutre, or fate, angusti
Parenti miei, che in meglio sempre io cangi
L’umana vita, e negli usati aspetti,
Quali ha costui che tramutommi il core,
Nobili sensi e virtù nova infonda!
Troppo d’insani mugolj turbate
Suonâr queste lucenti aule, che voi
M’edificaste e in cui tremata io vivo
Molto ad altrui, poco a me stessa in pregio;
Troppo su cori imbestíati ottenni
Facil vittoria e tracotati imperi:
Età nova incominci. E se lui cresce
Di Palla Atena egidarmata il senno,
Tal per incanto mio viva una gente,
Che in parte almeno a lui somigli, a il mio
Regno munisca e la mia gloria attesti!
Così, l’ordito interrompendo, al Sole
Pregò la dea dalle crespute chiome.
Ammontate grugnían presso a’ capaci
Stabbj le nere torme; alla crescente
Sera il mare ridea; ma la risposta,
S’una mai n’ebbe la volubil diva,
Fu dall’orecchio de’ mortali esclusa.