Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/518

     Ah, da quel dì che il ferro ei strinse, e sopra
     Minaccevol mi stette (onde, se volli
     Dalle irate sue mani uscire illesa,
     Abbracciar gli ebbi le ginocchia, e il giuro
     Che gli Dei lega profferir, per cui
     Nulla nel capo suo, ne’ suoi compagni
     Co’ filtri mici più macchinar dovessi)
     Ahi, da quel dì, quanto sia torto e vano
     Questo poter che da voi m’ebbi, appresi!
     È che mi giova, olimè, ch’io dell’umane
     Sembianze spogli e di ferine cuoja
     Stringa chi nulla, fuor che nell’aspetto,
     Dissimigliante è dalle fere? Eccelsa
     Virtù davvero inchinar capi indegni
     Di mirar la tua faccia, etereo Sole!
     Gloria sublime e invidíabil dote
     Di setole innasprir, coprir di velli
     Chi di pecora vile e di sannuto
     Verro ha costume, e tal vive tra’ suoi
     Che un grufolante gregge onta ne avrebbe!
     Qual vittoria e qual pro? Le stalle, i boschi
     E l’onde e l’aria di sì fatti servi
     Io potessi gremir, quale al mio nome
     Incremento verrebbe e all’esser mio?
     Regni su plebi inconscienti e cose
     Di lume orbe il mortal, cui spremer sangue
     Ad impinguar sue polpe inerti è assai:
     Bruto su bruti, altro a me vuolsi; e voi,
     Se ingrata affatto non vi son, più degno
     Scettro alla figlia apparecchiar dovreste.
     Nè d’atro canto alla ferina sorte
     Legar con bieca incantagion vorrei,
     (O Sol che tutto vedi, entro mi leggi)
     Chi di cor puro e di versuta mente,
     S’altro in terra ne viva a costui pari,
     Ch’io non so dir se per mio mal conobbi,
     Privilegiato è dagli Dei cotanto
     Che di gloria celeste il mondo alluma.
     Del, come io dea trepida vissi a questo
     Gramo tiglinolo di Laerte, gramo
     Pe ’l viver suo, pe’ suoi travagli tanti,
     Pe’ disfatti compagni e la remota
     Sposa e il trono deserto; a un dio conforme,

     Se al molteplice ingegno, al braccio invitto
     È al cor maggiore alla fortuna io miri!
     Dacchè l’intesi favellar, con vostra
     Pace, o divini genitori, il dico,
     Del mio potere ebbi dispetto; vuote
     Restâr le coppe incantatrici, e sdegno
     Provai non pur di quanti avean le ingorde
     Fauci al maligno beveraggio aperte,
     Ma dell’arte mia torva, onde sì vili
     E sì vani al mio stato eran gli effetti.
     Da quell’ora una brama il cor m’accese
     Orgogliosa, il confesso, è però degna
     Di me che nasco da cui tutto avviva:
     Brama che cieca alimentai nel petto,
     Finchè meco l’altéro ospite visse,
     E ch’or feroce al suo partir prorompe,
     E di lui mi tien luogo. Oh! se immortali
     Giorni e virtù di trasformar mi dèste
     Chi di pane si nutre, or fate, angusti
     Parenti miei, che in meglio sempre io cangi
     L’umana vita, e negli usati aspetti,
     Quali ha costui che tramutommi il core,
     Nobili sensi e virtù nova infonda!
     Troppo d’insani mugolj turbate
     Suonâr queste lucenti aule, che voi
     M’edificaste e in cui tremata io vivo
     Molto ad altrui, poco a me stessa in pregio;
     Troppo su cori imbestíati ottenni
     Facil vittoria e tracotati imperi:
     Età nova incominci. E se lui cresce
     Di Palla Atena egidarmata il senno,
     Tal per incanto mio viva una gente,
     Che in parte almeno a lui somigli, a il mio
     Regno munisca e la mia gloria attesti!

Così, l’ordito interrompendo, al Sole
     Pregò la dea dalle crespute chiome.
     Ammontate grugnían presso a’ capaci
     Stabbj le nere torme; alla crescente
     Sera il mare ridea; ma la risposta,
     S’una mai n’ebbe la volubil diva,
     Fu dall’orecchio de’ mortali esclusa.


L’ISOLA.


S’incolorava il primo fior del giorno,
     Quando dell’incantata isola a fronte
     Giunse la nave peregrina; il nostro
     Core balzò in tumulto, e su gli stanchi
     Volti ad un tempo la letizia nova
     E il novo riso del mattin si pinse.
     Rosea su l’onde porporine, come
     Sul letto di víole ignuda ninfa,
     L’isoletta stendeasi; e pari a tazza
     D’ónice colma di votive essenze,
     S’apría fumante di fragranze il porto.

Appoggiata al mio braccio ella con lieve
     Passo e con infantile ansia la tolda
     Lasciò non senza un dolce sguardo ai lochi
     Non ignari dei nostri ultimi affanni;
     E traversando con securo piede
     L’asse che dalla nave a la vicina
     Riva pendeva alto su l’acque e al nostro
     Peso cedea con quasi uman lamento,
     Balzò giojosa a terra, e a me, che assorto
     In un dolce pensier veníale appresso,
     Tese le aperte braccia, e su la bocca,
     Tal era il patto, il primo bacio impresse.


Deserta a prima vista era ognintorno
     La terra, se deserto è dove tanta
     Pompa di vita, sotto un ciel sì terso
     E in sì varia beltà spiega Natura;
     Ma umana ombra non mai certo all’opposto
     Sole usurpato avea le soffici erbe,
     Ch’ebbre di voluttà s’eran per tutto,
     Qual molle veste ad un bel corpo, apprèse.
     In digradante sen, come teatro
     Roman s’incurva ad oríente il lido;
     E un intatto sentier quindi a un opaco
     Bosco a le spalle d’un burrone appeso,
     Quinci a una fila di soavi còlli
     Evaníenti ne l’azzurro adduce,
     Sgorga tra questi un fiume, onde il più vago
     Non còrse mai: rompe da pria tra fosche
     Rupi ed impetuoso si convelle
     In un bollor di vivo argento; strani
     Alberi sopra a lui pendono, quali
     Sonnecchiosi giganti, e con le bieche
     Radici, che tra ciotti aridi e sabbie
     Prorompon dalle ripe in simiglianza
     Di sitibondi alligatori, tentano
     Il sacro fiume devíar. Fra l’irte