Pagina:Rapisardi - Poemi liriche e traduzioni, Remo Sandron, 1911.djvu/519

     Branche la ríottosa onda per poco
     Spumante e rotta in vitrei sprazzi freme,
     Ma sprigionasi tosto e sì dirama
     Per la florida valle; indi in un piano
     Vasto, uniforme che col ciel confina,
     Adunandosi placida dilaga.
     Qui mollemente a’ zefiri si dondola
     Il braminico loto, socchiudendo
     I celesti occhi, calici di sogni;
     Qui l’ermetica foglia, onde Odisseo
     Far potè vana la circèa bevanda,
     Provocata dal fresco euro susurra.

Ci adagiammo alla riva; ed ella il apo
     Mansueto di terso oro e di rose
     Fantasticando mi posò sul petto.
     Una quíete languida invadea
     L’anima delle cose; e tale un suono
     Sorgea da le fugaci onde, che l’eco
     D’altr’età, d’altri mondi a noi parea.

Volgi, o fiume immortal, volgi i tuoi flutti.
     Ecco, al perpetuo murmure dileguasi
     Dal mio ciglio la terra; ecco, al sorriso
     Di costei novo ciel s’apre al mio core.


Volgi, o fiume immortal, volgi i tuoi flutti.
     Quell’io non son, che doloroso e stanco,
     Piegando il capo a’ torvi casi e agli anni,
     Calar vidi su me picea la notte?
     Una candida pace ora si stende
     Sovra l’anima mia; sorge una nova
     Fede, e la sera del pensier ravviva.
     Tal fra’ pallori d’un tramonto il bianco
     Espero nasce, e il cielo ultimo allieta.

Volgi, o fiume immortal, volgi i tuoi flutti,
     Ira e dolor non più: le procellose
     Punte, in cui ruppi generoso il fianco,
     (Nè già del sangue, onde le tinsi, io gemo)
     Da lontano rimiro, e perigliosa
     Meno e men triste a me la vita appare.
     Così ne’ chiari plenilunj un latteo
     Vapore irriga le ronchiose balze
     Di Mongibello, ed una indefinita
     Soavità le rocce ispide vela.

Volgi, o fiume immortal, volgi i tuoi flutti.
     Nel vano azzurro una sembianza: Amore;
     Nel tetro abisso una parola: Amore:
     Amor, goccia di pianto e di rugiada
     Nel fiume eterno, ne l’immenso mare.


CALCIDONIO.


Calcidonio, l’amico onde più gode
     L’animo mio non è, s’io dica il vero,
     Tenero troppo del natío paese:
     Ei l’ama sì, ma in modo strano; e poi
     Che a pingere col verso egli è, non meno
     Che a poetare col pennel, maestro,
     S’io di sua patria carità mi rido,
     Tira fuor la matita, e su la sgòmbra
     Faccia d’un libro o in candida parete
     L’Etna segna di qua, di là sul doppio
     Seno del golfo i dolci edili iblei,
     E scritto in mezzo a grandi cifre il nome
     Di Vincenzo Bellini: Ecco la mia
     Patria, ghignando esclama; e irrequieto
     Son dita adunche i baffi ispidi arriccia.
     Questo, o caro, è un deserto. E che? dovrei
     Le pure linee, in cui Grecia rivive,
     Rompere e frastagliar di quante rozze
     E tozze e mozze capannacce usurpano
     La soleggiante via tutte superbe
     Della squillante imbiancatura e cèrte
     Di dar tema d’invidia al Partenone?
     O informicar dovrei questi tranquilli
     Piani del bulicame analfabeta,
     Che quando non falsifica, sogghigna?
     Meglio, amico, il deserto: io lo contemplo
     E l’avvivo e lo popolo a mia posta,
     Così dicendo, l’occhio acuto affonda
     Nei segnati contorni, e come suole,
     Bizzarramente alle sue fantasie,
     Quasi a viventi immagini, sorride.


Io penso intanto: e non potrei, del pari,
     Trasformar tutto a me dintorno, e in cheta
     Libertà vagheggiar quanto l’onesto
     Core e l’acceso immaginar mi crea?
     Troppo in battaglie ingrate e in disuguali
     Travagli ansano i petti umani; sopra
     Le amene rive della vita, come
     Ignea corrente, il bieco utile passa,
     Dell’ideale inaridisce i fonti,
     Dissecca i fiori d’ogni fede, e i germi
     Della venusta illusíone impietra.
     Non inerte però, qual radicato
     Tronco, al furor dell’imminente lava,
     Querulo scricchiolando, aspettar voglio
     L’incendio: augural fantasma invece
     Passeggerò su le ruine, è immerso
     Nell’azzurro de’ sogni il capo austero,
     Fantasticando aspetterò la morte,
     Ma non tu forse al nostro animo spiri,
     O fantasia, madre di numi? Spenta,
     Qual bolide dal ciel cadde l’umana
     Coscienza, cadde ogni virtù, se cieco
     Tra rei computi infuria, o da maligni
     Poteri oppresso il volgo ibrido ghigna?
     Non tu di rose il cielo e d’oro i campi
     Inondi ancor benignamente, o sole?
     Non tu, pace divina, agl’innocenti
     Costumi è al culto del dovere arridi?
     Dilegui or dunque dal mio ciglio quanto
     Ha di turpe e di triste il secol mio:
     Schiuda l’Arte i sereni occhi, e l’illesa
     Beltà vagheggi, onde s’irradia il mondo.


IL PASSAGGIO DELL’IMPERATORE.


Di filosofo inetto altri mi dia
     Titolo, e ghigni: col mio capo io penso,
     E quel che penso in chiare voci esprimo.
     Demagogo non sono; odiai già tempo
     La plebe, i preti e i re, che della plebe
     Son più perfidi spesso e più codardi;

     Or non odio nessuno; e giacchè molto
     A compatire, ad ammirar mai nulla
     Il più saggio degli uomini m’apprese,
     La bontà lodo sopra tutto, e quando
     Il dolor la flagella, il cor mi piange.
     Acre maestra la sventura è sempre