Poemetti (Rapisardi)/Calcidonio
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CALCIDONIO.
Calcidonio, l’amico onde più gode
L’animo mio non è, s’io dica il vero,
Tenero troppo del natío paese:
Ei l’ama sì, ma in modo strano; e poi
Che a pingere col verso egli è, non meno
Che a poetare col pennel, maestro,
S’io di sua patria carità mi rido,
Tira fuor la matita, e su la sgòmbra
Faccia d’un libro o in candida parete
L’Etna segna di qua, di là sul doppio
Seno del golfo i dolci edili iblei,
E scritto in mezzo a grandi cifre il nome
Di Vincenzo Bellini: Ecco la mia
Patria, ghignando esclama; e irrequieto
Son dita adunche i baffi ispidi arriccia.
Questo, o caro, è un deserto. E che? dovrei
Le pure linee, in cui Grecia rivive,
Rompere e frastagliar di quante rozze
E tozze e mozze capannacce usurpano
La soleggiante via tutte superbe
Della squillante imbiancatura e cèrte
Di dar tema d’invidia al Partenone?
O informicar dovrei questi tranquilli
Piani del bulicame analfabeta,
Che quando non falsifica, sogghigna?
Meglio, amico, il deserto: io lo contemplo
E l’avvivo e lo popolo a mia posta,
Così dicendo, l’occhio acuto affonda
Nei segnati contorni, e come suole,
Bizzarramente alle sue fantasie,
Quasi a viventi immagini, sorride.
Io penso intanto: e non potrei, del pari,
Trasformar tutto a me dintorno, e in cheta
Libertà vagheggiar quanto l’onesto
Core e l’acceso immaginar mi crea?
Troppo in battaglie ingrate e in disuguali
Travagli ansano i petti umani; sopra
Le amene rive della vita, come
Ignea corrente, il bieco utile passa,
Dell’ideale inaridisce i fonti,
Dissecca i fiori d’ogni fede, e i germi
Della venusta illusíone impietra.
Non inerte però, qual radicato
Tronco, al furor dell’imminente lava,
Querulo scricchiolando, aspettar voglio
L’incendio: augural fantasma invece
Passeggerò su le ruine, è immerso
Nell’azzurro de’ sogni il capo austero,
Fantasticando aspetterò la morte,
Ma non tu forse al nostro animo spiri,
O fantasia, madre di numi? Spenta,
Qual bolide dal ciel cadde l’umana
Coscienza, cadde ogni virtù, se cieco
Tra rei computi infuria, o da maligni
Poteri oppresso il volgo ibrido ghigna?
Non tu di rose il cielo e d’oro i campi
Inondi ancor benignamente, o sole?
Non tu, pace divina, agl’innocenti
Costumi è al culto del dovere arridi?
Dilegui or dunque dal mio ciglio quanto
Ha di turpe e di triste il secol mio:
Schiuda l’Arte i sereni occhi, e l’illesa
Beltà vagheggi, onde s’irradia il mondo.