Poco spazio di terra (Lucas)
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Lascian omai l’ambizïose moli
A le rustiche marre, a i curvi aratri:
Quasi che mover guerra
5Del ciel si voglia agli stellati poli
S’ergono mausolei, s’alzan teatri;
E si locan sotterra,
Fin su le soglie de le morte genti,
De le macchine eccelse i fondamenti.
10Per far di travi ignote
Odorati sostegni ai tetti d’oro
Si consuman d’Arabia i boschi interi:
Di marmi omai son vote
Le Ligustiche vene, e i sassi loro
15Men belli son pcrchè non son stranieri:
Fama han le più rimote
Rupi colà de l’Africa diserta,
Perchè lode maggior il prezzo merta.
Lucide e sontuose
20Splendon le mura sì, che vergognarsi
Fan di lor povertà l’opre vetuste:
D’agate prezïose,
Di sardoniche pietre ora son sparsi
I pavimenti delle loggie auguste.
25Tener le gemme ascose
Son mendiche ricchezze e vili onori;
Si calcano col piede ora i tesori.
Cedon gli olmi e le viti
All’edre, ai lauri, e fan selvaggie frondi
30Alle pallide ulive indegni oltraggi.
Sol caii e sol graditi
Son gli ombrosi cipressi e gl’infecondi
Platani e i mai non maritati faggi;
Da gli arenosi liti
35Trapiantansi i ginepri ispidi il crine,
Che le delizie ancor stan nelle spine.
II campo, ove matura
Biondeggiava la messe, or tutto è pieno
Di rose e gigli e di viole e mirti.
40La feconda pianura
Si fa nuovo diserto; e ’l prato ameno
Boschi a forza produce orridi ed irti.
Cangia il loco natura;
E del moderno ciel tal’è l’influsso,
45Che la sterilità diventa lusso.
Non son, non son già queste
Di Romolo le leggi, e non fur tali
O de’ Fabrizi o de’ Caton gli esempli.
Ben voi fregiati aveste,
50O de l’alma città Numi immortali,
Qual si dovea d’oro e di gemme i templi;
Ma di vil canna inteste
Le case furo, onde con chiome incolte
I Consoli di Roma uscir più volte.
55Oh! quanto più contento
Vive lo Scita, a cui natio costume
Insegna d’abitar città vaganti!
Van col fecondo armento
Ove più fresca è l’erba e chiaro il fiume
60Di liete piagge i cittadini erranti;
Dan cento tende a cento
Popoli albergo, ed è delizia immensa
Succhiar rustico latte a parca mensa.
Noi, di barbara gente
65Più barbari e più folli, a giusto sdegno
La natura moviamo, il mondo e Dio;
E nell’ozio presente
Istupidito è sì l’incauto ingegno,
Che tutto ha l’avvenir posto in obblio;
70Quasi che riverente
Lunge da i tetti d’or Morte passeggi,
E ’l ciel con noi d’eternità patteggi.
E pur, Giuseppe, è vero
Che di fragile vetro è nostra vita,
75Che più si spezza allor che più risplende.
Tardo sì, ma severo
Punisce il ciel gli orgogli, e la ferita
Che da lui viene inaspettata offende.
Non con stil menzognero
80Antiche fole ora mi sogno o fingo;
Le giustizie di Dio qui ti dipingo.
In aureo trono assiso,
Coronato di gemme a mensa altera,
Stava de l’Asia il re superbo e folle;
85II crin d’odori intriso
Piovea sul volto effeminato; ed era
Pien di fasto e lascivia il vestir molle;
Mille di vago viso
Paggi vedeansi, a un solo ufficio intenti,
90Ministrar lauti cibi in tersi argenti.
Tutto ciò, che di raro
In ciel vola, in mar guizza, in terra vive,
Del convito real si scelse agli usi.
Vini, che lagrimâro
95Le viti già su le Cretensi rive,
Fur con prodiga man sparsi e diffusi;
Nè soave nè caro
II frutto fu cuinon giugnesse grido
O contraria stagione o stranio lido.
100Scaltro garzone intanto
Per condire il piacer de la gran cena
Temprò con saggia mano arpa dorata;
E sì soave il canto
Indi spiegò, che in Elicona appena
105Febo formar può melodia più grata.
Ver lui sorrise alquanto
L’orgoglioso tiranno; e mentre disse,
Non fu chi battess’occhio o bocca aprisse.
‘ O beata, o felice
110La vita di colui che ’l Fato elesse
A regger scettri, a sostener diademi!
Vita posseditrice
Di tutto il ben che nelle sfere istesse
Godon lassù gli abitator supremi:
115Ciò ch’a Giove in ciel lice
Lice anco in terra al re; con egual sorte
Ambo pon dar la vita, ambo la morte.
Se regolati move
I suoi viaggi il sol; se l’ampio cielo
120Con moto eterno ognor si volve e gira;
Se rugiadoso piove,
S’irato freme, o senza nube e velo
Di lucido seren splender si mira,
Opra sol’è di Giove;
125Quell’è suo regno, e tributarie belle
A lo sguardo divin corron le stelle.
Ma se di bionde vene
Gravidi i monti sono, e se di gemme
Ricchi ha l’India felice antri e spelonche;
130Se da le salse arene
Spuntan coralli, e nell’Eoe maremme
Partoriscono perle argentee conche,
Son tue, Signor. Non tiene
Giove imperio quaggiù: questa è la legge;
135II mondo è in tuo poter, il cielo ei regge.
Su dunque, o fortunati
De l’Asia abitatori, al nume vostro
Vittime offrite, e consacrate altari:
Fumino d’odorati
140Incensi i sacri templi, e ’l secol nostro
Terreno Giove a riverire impari;
E tu, mentre prostrati
Qui t’adoriam, Signor, de’ tuoi divoti
Avvezzati a gradir le preci e i voti.’
145Lusingava in tal guisa
Questi il tiranno, e festeggianti e liete
D’ogn’intorno applaudean le turbe ignare;
Quando mano improvvisa
Apparve, io non so come, e la parete
150Scritta lasciò di queste note amare:
‘ Tu che fra canti e risa,
Fra lascivie e piaceri ora ti stai,
Superbissimo re, diman morrai.’
Tal fu ’l duro messaggio:
155Nè guari andò che da l’ondoso vetro
Uscì Febo a cacciar l’ombra notturna:
Infelice passaggio
Da real trono ire a mortal feretro,
Dal pranzo al rogo, e da le tazze a l’urna
160Così va chi mal saggio,
Volgendo il tergo al ciel, sua speme fonda
Ne’ beni di quaggiù lievi qual fronda.