Piccola morale/Parte quarta/XII. Le visite e i visitanti
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XII.
LE VISITE E I VISITANTI.
Un discorso fattomi l’altro ieri da Sebastiano mi fu cagione di formare tutt’altro concetto da quello che io aveva avuto di lui fino a quell’ora. Domizio, gli dissi, vi è molto amico, parla sempre de’fatti vostri con grande favore, nessuno si attenterebbe dir nulla in vostro svantaggio, egli presente; mi ricordo che all’udire essersi appreso il fuoco in un canto della città, domandò subito della contrada, ed udito che non era la vostra. fece il sembiante di chi uscisse allora da un imminente pericolo.... Voleva continuare, ma interruppemi Sebastiano. rispondendo: sì, sì, tutto questo è pur vero; ma che fede volete ch’io mi abbia nell’amicizia di un uomo che si lascia vedere da me non più che una o due volte il mese? Che quando io, o altri di mia casa siamo a letto (tolto che la malattia fosse grave, o se gli desse una qualche incombenza, nei quali casi Domizio per verità è tutto mani e tutto cuore per noi) non si prende alcuna cura di venirci a trovare? Saverio, vedete, oh! Saverio si, che si può dire mio amico. Egli non fugge giorno che non venga a farmi visita; fosse anche con pericolo di seccarmi, non passa mai da lato alla mia casa senza che le mani gli corrano, quasi per istinto, alla fune del campanello. Non c’è novella del paese che egli non mi racconti: appena l’ha insaccata viene subito a farmene parte, seuza dar spazio nemmeno alla critica di esaminare se quella novella sia da riporre fra le ciance, o abbia buon fondamento di probabilità. Passeggia ogni dopo pranzo in mia compagnia, e se qualche giorno il sonno fosse per occuparmi più del dovere, la voce di Saverio si fa udire instancabile all’ora assegnata, a costo ancora di rompere il filo al più dilettevole de’ miei sogni, dei quali per verità non ne ho molti.
Di tal maniera, e con altre parole oltre a quelle da me riferite, rispondeami Sebastiano in proposito dell’amicizia di Domizio. Ed io sapeva che quel Saverio, tanto da lui commendato, pochi mesi prima aveva dato segno della più vergognosa freddezza in un affare in cui ci andava dell’onore e delle sostanze dell’amico. Ne Sebastiano ignorava quella freddezza, ma aveva in pronto per Saverio quelle scuse, che non vennergli mai trovate per Domizio. Ponendomi a considerare la cosa tra me e me chetamente, cominciai dall’attribuire questa singolare maniera con cui Sebastiano giudicava de’ suoi amici, a quella certa simpatia che ci fa tollerare le stravaganze e i difetti di taluno, e ci reude indifferenti ai pregi e alle cortesie di tal altro. Ma questa spiegazione, quantunque fondata sopra ragione, non sembravami opportuna al caso di Sebastiano; tanto più ch’egli stesso non aveva lasciato d’esporre i motivi pei quali preferiva a Domizio Saverio. Di che ne conchiusi che molti sono tra gli uomini i quali, anziché alla realtà dell’amicizia, badano all’apparenza; e si contentano di rimanere abbandonati nei momenti più solenni della vita, par di essere compiaciuti di picciole e spesso inutili cure giornaliere. E molti sono i quali intendono perfettamente una tale disposizione d’animo de’ loro pretesi amici, e fanno di quelle picciole, e spesso inutili cure, il principale esercizio della scioperata lor vita.
Direste affettuoso Maurizio, che da mane a sera bussa alla porta quando d’uno, quando d’altro de’ suoi conoscenti? Ma, e non sapete, che senza tramutarsi di casa in casa non avrebbe di che impregnarsi di tante minute storielle, cui va bellamente rivendendo di qua e di là, ad accattarsi il favore degli oziosi e dei maligni? Lisandro fa invece la stessa strada non per altro che per obbedire alla moda. Sembragli essere un gran che a questo mondo, come può dire: ieri mi convenne far visita ad A... che se ne va in villa; domani mi tocca presentare i miei augurii a B... pel giorno suo natalizio; non ho ancora veduto C... che tornò dal suo viaggio; la malattia di D... oggi ha peggiorato quantunque abbia passata una notte tranquilla; le lettere tutte dell’alfabeto non bastano a significare le varie persone che per cagione delle partenze, dei ritorni, delle malattie, delle convalescenze, delle morti, dell’eredità, delle nozze, dei divorzii, delle promozioni, degli onomastici, e via, e via discorrendo, Lisandro deve tutte visitare in un giorno. Ma così va per chi è nato bene, per chi ha relazioni, per chi insomma è al mondo a vivere e non a vegetare. Alessandro all’incontro si rifugia nelle visite per e sottrarsi alla mortale influenza della noia che affannerebbe il disoccupato suo tempo. Egli va a domandare se Aurelia sia morta, con quell’animo con cui avrebbe richiesto, poste altre circostanze, se le nozze di lei furono finalmente conchiuse. Per esso fanno tanto le risposte dei domestici che dei padroni: la strada è fatta, e il tempo consumato tanto nell’un modo quanto nell’altro. E se Aurelia morisse? Oh Dio! bisogna trovare un’altra malata di cui andar a richiedere le novelle tra le undici e il mezzogiorno. Non dissimile sarebbe l’imbarazzo quand’ella guarisse. Ma pur troppo di miseri e di malati non c’è mai penuria: quindi Alessandro è sempre in faccenda. L’acuto sermonatore di cui possano più ragionevolmente pregiarsi Venezia e l’Italia, ci ha insegnato con mirabili versi a far saggio della fatua amicizia di costoro, raccontando ad essi alcun che di sinistro che ci sia accaduto, e richiedendoli di soccorso. Allora potremmo accorgerci che la strenua inerzia del Venosiuo è riferibile molto opportunamente anche ad essi. Il loro cuore sta tutto nelle calcagna, e li rende abili a sgambettare da luogo a luogo, o nelle ginocchia quando trattasi di riverenze, delle quali sanno tutte le foggie e le gradazioni.
Quanto a me amo il mio caro Evandro, con tutte le sue inavvertenze, con tutte le sue distrazioni. È andato qualche volta alla campagna senza darmene avviso, ma senza ch’io lo chiamassi fece ritorno improvvisamente, a cagione della novella che si era sparsa di un grave sinistro accadutomi. Mi scrive di rado, e talvolta, dopo un mese di lontananza, non più che due righe alla ciceroniana: se stai bene ne godo: io pure sto bene; ma per darmi un consiglio di cui credeva che abbisognassi scombiccherò da quattro fogli di carta, zeppi tutti per lungo e per largo, sebbene molestato negli occhi da malattia. Scontrandosi meco per istrada e domandandogli io, che c’è di nuovo? mi risponde collo stringersi nelle spalle ma guai se nessuno ardisce pronunziare il mio nome in coda, o con accompagnamento di scortesi parole. In somma il cuore di Evandro è mio; e lascio, a chi sa desiderarle, le mani, i piedi, e, con sopportazione de’ miei lettori, la lingua degli amici del tenore di Alessandro, e degli altri da me nominati qua sopra, e a’quali ognuno potrà aggiugnere la lista dei proprii, che non sarà, credo, assai breve.