Perdita di fiato (Raccolta)/Prefazione

A.C. Rossi

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Edgar Allan Poe - Perdita di fiato (1922)
Traduzione dall'inglese di A.C. Rossi (1922)
Prefazione
Perdita di fiato (Raccolta)

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Sarebbe veramente interessante una ricerca volta a rintracciare, precisandone i modi e le qualità, le influenze esercitate su vari scrittori europei del secolo scorso dall’opera di Edgar Poe. Apparirebbe allora, questa figura che l’immaginazione si compiace di evocare su uno sfondo di isolamento, senza passato nè avvenire, in una atmosfera trasognata e extratemporale, come quella di uno tra gli scrittori il cui influsso sulla letteratura posteriore fu tra i più vasti, multiformi e impensati.

Conviene precisare. L’opera di Poe non è di quelle che riassumono un’esperienza umana, che esprimono una particolare visione del mondo: e nemmeno di quelle che frammezzo al vario, multiforme spettacolo dell’esistenza trascelgono alcuni aspetti e li innalzano, per mezzo della rappresentazione artistica, a un [p. 6 modifica]significato universale. Precursore legittimo, nei suoi metodi, di quella che si chiamò poesia simbolista, l’ambizione di Poe è di suscitare per mezzo della sua arte fantastica e sciolta da ogni vincolo realistico, certe emozioni primordiali, usualmente il terrore, l’angoscia, il rimpianto, l’orrore, ciascuna delle quali è propriamente, volta a volta, il soggetto delle sue composizioni; tutto il resto, la materia poetica o narrativa, non essendo da lui considerata se non come un elemento senza diritti propri, un materiale che l’artista inventa e mette in opera con piena libertà di scelta, ragionatamente e logicamente, in vista di ottenere la massima unità e intensità di effetto. Questa, in parole povere, è la sua estetica, da lui del resto dichiarata e spiegata senza reticenze, anzi con una sincerità non esente certo da esagerazioni un po’ fumistiche. E quì sta senza dubbio, non solo a nostro avviso, il segreto punto debole della sua opera, degna, per tanti altri versi, della nostra ammirazione. Egli non scrive, dominato da una intuizione organica e profonda, cui cerchi di aderire onde manifestarla autonoma e vivente: bensì, mette il suo orgoglio a costruire con paziente artificio, servendosi di tutte le risorse e le astuzie dello stile, nel che non si può contestargli una singolare maestrìa, in vista [p. 7 modifica]dell’effetto. Gli succede così, cosa che egli non si sarebbe certamente aspettata, di strafare, di passare il segno. E un lettore, come ve ne sono sempre, circospetto e non troppo ben disposto, una volta afferrata la «ficelle» della composizione, non crede più alla ingenuità di tutti quei particolari buttati lì quasi con negligenza, ma che tendono tutti, gli uni appresso agli altri, alla più intensa impressione finale; e tutto questo meccanismo, invece di soggiogarlo, lo impazienta e lo indispone.

Tendeva dunque, il nostro discorso, a fare apparire come l’influenza di Poe non poteva manifestarsi pel verso di una particolare impronta spirituale, di un modo nuovo di vedere e intendere le cose, insomma, da lui imposto. La sua influenza fu sopratutto letteraria, formale: e la varietà delle sue iniziative in questo dominio spiega come ne possano aver approfittato i temperamenti più diversi, tanto che le tracce ne sono chiaramente rilevabili in opere radicalmente eterogenee per intenzioni e per valore, come, per prendere due casi estremi, il romanzo poliziesco e la poesia simbolista. E questo infine potrebbe giustificare l’asserto di chi affermasse che Poe fu sopratutto un creatore di forme e procedimenti letterari.

I due più notevoli poeti inglesi della seconda [p. 8 modifica]metà del secolo passato. Rossetti e Swinburne, hanno tratto dall’opera di Poe inspirazioni, forme, immagini, risonanze. In tutt’altro campo, è stato già notato quanto debbano a Poe il romanzo poliziesco, il romanzo fantastico di Wells (uno scrittore francese, di quelli che anche tra i giovani vanno per la maggiore, accomuna a questo proposito i nomi di «Kipling et Wells» il quale Kipling, in simile occorrenza, prende un aspetto alquanto stranito e spaesato; ma vedi potenza delle associazioni d’idee, o piuttosto di nomi!); e, infine, il romanzo d’avventure di Stevenson, scrittore che trasse certamente molto profitto dalla lettura delle «Avventure di A. Gordon Pym».

È tuttavia in Francia, come ognuno sà, che Poe trovò, in un grande poeta, il suo più celebre assertore ed esaltatore. Carlo Baudelaire tradusse splendidamente, con scrupolo ed amore infinito, quasi tutta l’opera in prosa di Poe, scrisse su di lui delle bellissime e commosse pagine, gli dedicò infine un culto che venne prendendo forme sempre più fervide e mistiche, tanto ch’egli finì per rivolgersi a lui nelle sue preghiere serali come a un genio tutelare e un divino intercessore. Qui, a dir vero, l’avventura appare subito di specie alquanto diversa. Il segreto di questo culto e di questa [p. 9 modifica]esaltata ammirazione, che deve sorprendere in un uomo, quale Baudelaire, di gusto estremamente difficile, quando ci si arresti a una mera considerazione letteraria, giace invece in un punto più profondo. In tutta la vita e l’opera di Poe, si avverte, come una cupa nota tenuta, il dominio di una unica fatalità e ossessione, quella da lui descritta (si leggano in questo volume le pagine che vanno sotto quel titolo) come il «Demone della perversità»; quell’insopprimibile, primitivo e profondo gusto del male che sta in agguato in fondo all’animo dell’uomo, che sorge improvviso a contrastare ai suoi migliori impulsi, a neutralizzare i suoi sforzi di volontà, che talvolta lo spinge con voluttà alla propria distruzione. A Baudelaire, cui non v’ha dubbio tale straniero e ingovernabile movente si fosse già temibilmente manifestato, poichè nella sua istintiva e sofferta adesione alla dottrina del peccato originale sia appunto il cardine del suo cattolicismo tragico, la rivelazione dell’opera e della vita di Poe dovette giungere come un segno provvidenziale, come una incarnazione luminosa di quella «postulazione simultanea verso il cielo e verso l’inferno» che venne sempre più apparendogli costitutiva dell’animo umano. Quella misteriosa contraddizione, in virtù della quale tutti i migliori [p. 10 modifica]impulsi, le più nobili attitudini di un uomo non sono che un polo luminoso, cui fa contrasto una dolorosa zona di tenebra e di errore, per cui ogni più eletta qualità deve essere bilanciata da qualche debolezza, da qualche perversione che ne forma il crudele contrappasso, tutta la vita di Poe, il suo singolare e straziante destino e l’angosciata coscienza ch’egli aveva, la sua fine sinistra, ne erano un esempio tanto inesorabile e significante da far apparire la sua figura, sublimata in una luce di fatalità e di martirio, come lo strumento d’una volontà superiore.

«Poeta maledetto» dunque; e infatti al suo nume si rivolsero tutti i poeti di questa schiatta che ne perpetuarono, sino al crepuscolo del secolo, la tradizione.

Quanto all’Italia, molto tardi il nostro paese si risvegliò alle correnti letterarie moderne, e così fu tardiva da noi l’imitazione di Poe, tanto tardiva da apparire anacronistica: e i protagonisti ne sono tanto noti che ci possiamo dispensare dal nominarli.

Il grosso dell’opera di Poe è tradotto in tutte le lingue, e molto noto al gran pubblico. Ma, chissà perchè, tutte le traduzioni si sono regolate su quella di Baudelaire, il quale non avendo fra mano i testi completi lasciò nell’oblìo [p. 11 modifica]una parte dell’opera. Abbiamo perciò creduto opportuno presentare ai lettori italiani alcuni di questi scritti, che appartengono quasi tatti a un «Poe minore» e poco noto: sono, vogliamo dire, di maniera satirica, burlesca o semplicemente comica, come ad esempio, «Gli Occhiali». In taluno di questi scritti («Sei stato tu!») parrebbe che Poe si sia divertito a parodiare la propria «maniera forte» tragica e macabra. Un altro, «perdita di Fiato» è una satira diretta contro lo stile e i metodi del Blackwood, celebre periodico di quei tempi, contro il quale Poe amava di tanto in tanto lanciare delle frecciate alquanto velenose.

Da ultimo, si potrà trovare nel «1002do Racconto di Sherazade» oltre a un piacevole saggio dello humour di Poe, festoso ed arguto, un convincente esempio di quella infatuazione scientifica e matematica che è uno degli aspetti più curiosi del suo americanismo.