Vita dei campi (1881)/Pentolaccia
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PENTOLACCIA.
Giacchè facciamo come se fossimo al cosmorama, quando c’è la festa nel paese, che si mette l’occhio al vetro, e si vedono passare ad uno ad uno Garibaldi e Vittorio Emanuele, adesso viene «Pentolaccia» ch’è un bello originale anche lui, e ci fa bella figura fra tanti matti che hanno avuto il giudizio nelle calcagna, e hanno fatto tutto il contrario di quel che suol fare un cristiano il quale voglia mangiarsi il suo pane in santa pace.
Ora se si ha a fare l’esame di coscienza a tutti coloro che hanno avuto il bel gusto di far parlare di sè, nell’aia, nell’ora delle chiacchiere, dopo colezione; e se si deve fare come fa il fattore il sabato sera che dice a questo: — Cosa ti viene per le tue giornate? — e a quell’altro: — Tu che hai fatto nella settimana? — non si può lasciar «Pentolaccia» senza dirgli il fatto suo, un brutto fatto in verità, chè gli avevano messo quel bel nomignolo per la brutta cosa che sapete.
Già si sa che la gelosia è un difetto che l’abbiamo tutti, chi più chi meno, e per questo i galletti si spennacchiano fra di loro prima ancora di mettere la cresta, e i muli sparano calci nella stalla. Ma quando uno non ha mai avuto questo vizio, e ha chinato sempre il capo in santa pace, che sant’Isidoro ce ne scampi, non si sa capire come abbia a infuriare tutt’a un tratto, al pari di un toro nel mese di luglio, e faccia cose da matto, come uno che non ci vegga più dagli occhi pel mal di denti; chè quelle cose lì sono appunto come i denti, che dànno un martoro da far perdere la ragione allorchè spuntano, ma dopo non dànno più noia, e servono a masticare il pane; e lui ci masticava così bene che aveva messo pancia, come un galantuomo, e pareva un canonico; per questo la gente lo chiamava «Pentolaccia» perchè ci aveva la pentola al fuoco tutti i giorni, chè gliela manteneva sua moglie Venera con don Liborio.
Egli aveva voluto sposare la Venera per forza, sebbene non ci avesse nè re nè regno, e anche lui dovesse far capitale sulle sue braccia per buscarsi il pane. Invano sua madre, poveretta, gli andava dicendo: — Lascia star la Venera, che non fa per te; porta la mantellina a mezza testa, e fa vedere il piede quando va per la strada. — I vecchi ne sanno più di noi, e bisogno ascoltarli pel nostro meglio.
Ma lui ci aveva sempre pel capo quella scarpetta e quegli occhi ladri che cercavano il marito fuori della mantellina; perciò se la prese senza volere udir altro, e la madre uscì di casa dopo trent’anni che c’era stata, perchè suocera e nuora insieme ci stanno proprio come due mule selvaggie alla stessa mangiatoia. La nuora, con quel suo bocchino melato, tanto disse e tanto fece che la povera vecchia brontolona dovette lasciarle il campo libero, e andarsene a morire in un tugurio; e fra marito e moglie succedeva anche una quistione ogni volta che doveva pagarsi la mesata del tugurio. E allorchè il figlio accorse trafelato, al sentire che alla vecchiarella le avevano portato il viatico, non pote ricevere la benedizione, nè cavare l’ultima parola di bocca alla moribonda, la quale aveva già le labbra incollate dalla morte, e il viso disfatto, nell’angolo della casuccia dove cominciava a farsi scuro, e aveva vivi solamente gli occhi, coi quali pareva che volesse dirgli tante cose. — Eh?... Eh?...
Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e non fa buona fine.
La povera vecchia era morta col rammarico della mala riuscita che aveva fatto la moglie di suo figlio; e Dio le aveva accordato la grazia di andarsene da questo mondo, portandosi al mondo di là tutto quello che ci aveva nello stomaco contro la nuora, e che sapeva come gli avrebbe fatto piangere il cuore al figliuolo. Appena la nuora era rimasta padrona della casa, e colla briglia sul collo, ne aveva fatte tante e poi tante, che la gente ormai non chiamava altrimenti suo marito che con quel nomaccio, e quando arrivava a sentirlo anche lui, e si avventurava a lagnarsene colla moglie — Tu che ci credi? gli diceva lei: ed egli non ci credeva, contento come una pasqua.
Era fatto così poveretto, e sin qui non faceva male a nessuno. Se gliel’avessero fatta vedere coi suoi occhi, avrebbe detto che non era vero. O fosse che per la maledizione della madre la Venera gli era cascata dal cuore, e non ci pensasse più; o perchè standosene tutto l’anno in campagna a lavorare, e non vedendola altro che il sabato sera, ella si era fatta sgarbata e disamorevole col marito, ed egli avesse finito di volergli bene; e quando una cosa non ci piace più, ci sembra che non debba premere nemmeno agli altri, e non ce ne importa più nulla che sia di questo o di quell’altro; insomma la gelosia non poteva entrargli in testa neanche a ficcarcela col cavicchio, e avrebbe continuato per cent’anni ad andare lui stesso, quando ce lo mandava sua moglie, a chiamare il medico, il quale era don Liborio.
Don Liborio era anche suo socio, tenevano una chiusa a mezzeria; ci avevano una trentina di pecore in comune; prendevano insieme dei pascoli in affitto, e don Liborio dava la sua parola in garenzia, quando si andava dinanzi al notaio. «Pentolaccia» gli portava le prime fave e i primi piselli, gli spaccava la legna per la cucina, gli pigiava l’uva nel palmento; a lui in cambio non gli mancava nulla, nè il grano nel graticcio, nè il vino nella botte, nè l’olio nell’orciuolo; sua moglie bianca e rossa come una mela, sfoggiava scarpe nuove e fazzoletti di seta; don Liborio non si faceva pagar le sue visite, e gli aveva battezzato anche un bambino. Insomma facevano una casa sola, ed ei chiamava don Liborio «signor compare» e lavorava con coscienza — su tal riguardo «Pentolaccia» non gli si poteva dire — a far prosperare la società col «signor compare» il quale perciò ci aveva il suo vantaggio anche lui, e così erano contenti tutti, chè alle volte il diavolo non è brutto come si dipinge.
Ora avvenne che questa pace degli angeli si mutò in un casa del diavolo tutt’a un tratto in un giorno solo, in un momento, come gli altri contadini che lavoravano nel maggese, mentre chiacchieravano all’ombra, nell’ora di vespero, vennero per caso a leggergli la vita, a lui e a sua moglie, senza accorgersi che «Pentolaccia» s’era buttato a dormire dietro la siepe, e nessuno l’aveva visto, che per questo si suol dire «quando mangi chiudi l’uscio, e quando parli guardati d’attorno.»
Stavolta parve proprio che il diavolo andasse a stuzzicare «Pentolaccia» il quale dormiva, e gli soffiasse nell’orecchio gl’improperii che dicevano di lui, e glieli ficcasse nell’anima con un chiodo. — E quel becco di «Pentolaccia!» dicevano, che si rosica mezzo don Liborio! e ci mangia e ci beve nel brago, e c’ingrassa come un maiale!
Allora egli si rizzò come se l’avesse morso un cane arrabbiato, e si diede a correre verso il paese senza vederci più degli occhi, che fin l’erba e i sassi gli sembravano rossi al pari del sangue. Sulla porta di casa sua incontrò don Liborio, il quale se ne andava tranquillamente, facendosi vento col cappello di paglia. — Sentite, «signor compare» gli disse lui; se vi vedo un’altra volta in casa mia, com’è vero Dio! vi faccio la festa!
Don Liborio lo guardò negli occhi, quasi parlasse turco, e gli parve che gli avesse dato volta al cervello, con quel caldo, perchè davvero non si poteva immaginare che a «Pentolaccia» saltasse in mente da un momento all’altro di esser geloso, dopo tanto tempo che aveva chiuso gli occhi, ed era la miglior pasta d’uomo e di marito che fosse al mondo.
— Cosa avete oggi, compare? gli disse.
— Ho, che se vi vedo un’altra volta in casa mia, com’è vero Dio, vi faccio la festa.
Don Liborio si strinse nelle spalle e se ne andò ridendo. Lui entrò in casa tutto stralunato, e ripetè alla moglie: — Se vedo qui un’altra volta «il signor compare» com’è vero Dio, gli faccio la festa!
Venera si cacciò i pugni sui fianchi, e cominciò a sgridarlo e a dirgli degli improperi. Ei si ostinava a dire sempre di sì col capo, addossato alla parete, come un bue che ha la mosca, e non vuol sentir ragione. I bambini strillavano al veder quelle cose insolite. La moglie infine prese la stanga, e lo cacciò fuori dell’uscio per levarselo dinanzi, e gli disse che in casa sua era padrona di fare quello che le pareva e piaceva.
«Pentolaccia» non poteva più lavorare nel maggese, pensava sempre a una cosa, ed aveva una faccia di basilisco che nessuno gli conosceva. Prima d’imbrunire, ed era sabato, piantò la zappa nel solco, e se ne andò senza farsi saldare il conto della settimana. Sua moglie, vedendoselo arrivare senza denari, e per giunta due ore prima del consueto, tornò di nuovo a strapazzarlo, e voleva mandarlo in piazza, a comprarle delle acciughe salate, che si sentiva una spina nella gola. Ma ei non volle andarsene dalla cucina, tenendosi la bambina fra le gambe, la quale, poveretta, non osava muoversi, e piagnuccolava, per la paura che il babbo le faceva con quella faccia. Venera quella sera aveva un diavolo per capello, e la gallina nera, appollaiata sulla scala, non finiva di chiocciare, come quando deve accadere una disgrazia.
Don Liborio soleva venire dopo le sue visite, prima d’andare al caffè, a far la sua partita di tresette; e quella sera Venera diceva che voleva farsi tastare il polso, perchè tutto il giorno si era sentita la febbre, per quel male che ci aveva nella gola. «Pentolaccia» lui, stava zitto, e non si muoveva dal suo posto. Ma come si udì per la stradicciuola tranquilla il passo lento del dottore che se ne venia adagio adagio, un po’ stanco delle visite, soffiando pel caldo, e facendosi vento col cappello di paglia; «Pentolaccia» andò a prender la stanga colla quale sua moglie lo scacciava fuori di casa, quando egli era di troppo, e si appostò dietro l’uscio. Per disgrazia Venera non se ne accorse, perchè in quel momento era andata in cucina a mettere una bracciata di legna sotto la caldaia che bolliva. Appena don Liborio mise il piede nella stanza, suo compare levò la stanga, e gli lasciò cadere fra capo e collo tal colpo, che l’ammazzò come un bue, senza bisogno di medico, nè di speziale.
Così fu che «Pentolaccia» andò a finire in galera.