Pensieri e giudizi/II/XVIII
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XVIII. 1
maggio 1907.
Nel folle arrabattarsi di tante vanità che paiono persone, in sì ciarlatanesco sciorinamento di ciarpame rinfronzolito, Salvatore Farina rimane al sentimento e al giudizio di quanti non han perduto il gusto della pura bellezza una delle più sincere coscienze di uomo e di artista. Confortevole riesce perciò la vostra manifestazione, perchè ci assicura che la corruzione, ond’è maleficata così gran parte della vita italiana, non è riuscita a spegnere affatto nella nuova generazione quell’entusiasmo o almeno quell’affetto generoso che si deve a quanti nel comune pervertimento estetico e morale, serbando incontaminata la natía schiettezza dell’animo e la nobile semplicità dello stile, si son fatti dell’arte una religione di bellezza e di moralità.
Ed è opportuno che le onoranze al geniale scrittore si facciano in questa fiorente stagione: l’arte di Salvatore Farina ha freschezza e vaghezza primaverile e rimane per questa sua qualità intimamente legata alle dolci memorie dei nostri irrevocabili giorni.
Assillati dalle misere cure cotidiane, tribolati dai dolori e dai disinganni che ci procura incessantemente l’agitato consorzio civile, noi sentiamo non di rado il bisogno di asilarci in una modesta casa campestre; l’afa delle affannose bassure e il rombo delle vie cittadine non giungono a turbare la serenità fresca dell’aria e la tranquillità silenziosa del verde.
Il nostro amico è là che ci aspetta.
Ecco, egli ci viene incontro con quel suo bel faccione di galantuomo; ci abbraccia fraternamente; ci dà con effusione di cuore i segni più festosi della sua disinteressata ospitalità. I disagi familiari, le contrarietà umoristiche di abbandoni di vecchi amici, la scarsa confidenza dei nuovi, dànno argomento inesauribile ai suoi discorsi. Egli parla dei casi suoi con sincerità che chiama a torto morbosa, ma che è, a parer mio, l’indice vero di una forza consapevole della propria sanità, non ignara della malizia del mondo, nè dei pericoli a cui sempre si espone, ma sdegnosa delle misere ipocrisie, onde la così detta «gente per bene» si va industriosamente procacciando la protezione dei potenti e i sorrisi della fortuna.
Nella pace serena della campagna, sotto un albero secolare o nel raccoglimento pensoso della casa non turbata da risonanze volgari, i suoi racconti avvivati sempre da un umorismo gentile entrano disinvolti e s’aggirano, con apparente spensieratezza, fra più bizzarri andirivieni dello spirito umano, ne rischiarano gli angoli più riposti, ne fanno osservare le panie, le gretole, i trabocchetti.
L’arte del narratore è di una spontaneità, di una semplicità straordinaria: schiva le crudezze e gli stridori della realtà; aborre dalle eccezioni mostruose; sdegna le manifestazioni violente della umana bestialità; s’insinua invece, indugia per lo più fra le minutaglie della vita cotidiana; ottiene a via di sfumature delicate i rilievi più pittoreschi e più vivi; attinge senza visibile fatica alle fonti più alte del sorriso e del pianto. Ci par di sentire il mormorio di un ruscello, di vederlo discorrere limpido e piano fra l’erbe fiorite, ravvivarsi in cascatelle iridescenti, dividersi in cento rivoletti guizzanti tra sassi muschiosi, nascondersi fra i giunchi del greto, riapparire cresciuto e spumeggiante fra’ greppi, perdersi come il nostro pensiero dietro ai variopinti fantasmi della vita, nella penombra malinconica della sera. La nostra fronte si spiana, il nostro animo si rasserena; la carezza di una mano misteriosa spalma di balsamo le nostre vecchie ferite: ci sentiamo più forti e più buoni; ci riconciliamo con la vita di tutti i giorni, non senza mestamente sorridere della nostra e dell’altrui non sanabile fragilità.
Note
- ↑ Per le onoranze a S. Farina, in Roma.