Pensieri e giudizi/II/XVII
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XVII.
aprile 1907.
I dipinti di Calcedonio Reina non sono fatti per chiamar gente, non hanno sfoggio di colori prosuntuosi, non audacia di atteggiamenti e di scorci, non lenocinio di nudità provocanti. La moltitudine ignara non si ferma a guardarli; i signori che han voglia di comprare passano indifferenti; i critici saputelli sogghignano. Ma le persone, a cui non è fatica il pensare, le anime gentili, a cui il rintocco di una campana al tramonto, la striscia luminosa di una stella filante, la scía che biancheggia dietro una barca, il batter di un’ala raminga dà un argomento di fantastiche visioni, si fermano volentieri innanzi alle strane figurazioni di questo singolarissimo artista, che s’ingegna di render su la tela gli evanescenti fantasmi di un mondo creato da lui, e nel quale egli vive in un continuo dormiveglia, in una beata incoscienza dello spazio e del tempo.
Che importa a lui della vita di tutti i giorni, della terra meschina, della natura mortale? Egli sa, o crede di sapere, che di là da questo miserevole avvicendarsi di forme caduche, di passioni feroci, di sogni bizzarri, di dolori e di tenebre indefinite, c’è la vita vera, la luce eterna, la sola indistruttibile realtà. Mistico, non di proposito, ma di temperamento, credente per sentimento ereditario, per educazione di famiglia e di scuola, per ostinato dispetto alla incredula età, ei si aggira, negligente degli altri e di sè, in una sfera interplanetare, dove il passato, il presente e l’avvenire si contorcono in danza spettrale, dove le idee più concrete, le forme più comuni ondeggiano in un’atmosfera grigia, s’inseguono, si sfigurano, si disperdono con l’incostanza, la mobilità e la vaporosità di nuvole cacciate dal vento e scarsamente colorate dai pallidi riflessi di un sole invernale. Il vero non è per lui che la prima pietra di un edificio ideale, l’imbarco, dirò così, da cui egli muove alla conquista del polo ignoto; il suo mondo principia appunto dove finisce la realtà; egli non ha la visione e la concezione del vero, non vive che nel sogno, non vede che l’invisibile. La sua pittura non è riproduzione della natura mortale: meglio che la vita, riproduce la morte; simboleggia le forze misteriose dell’essere, la nostalgica passione dell’Ideale, l’ossessione religiosa dell’Infinito.
La musica renderebbe, forse meglio che la pittura, la fluttuazione del suo spirito irrequieto e perplesso; egli, che di tutte le arti ha un sentimento squisito, non ha la pazienza necessaria a vincere la tecnica aridità della composizione musicale, si contenta di segnare sulla tela in poche linee e in semplici colori, le mistiche esaltazioni del suo cuore, le allucinazioni fantastiche del suo cervello. Quando però la tavolozza gli sembra insufficiente, la getta in un canto, e ricorre con geniale incostanza alla poesia, a cui sin da giovinetto ha confidato i suoi più secreti pensieri. I suoi versi, che non sempre corrispondono alle regole del buon gusto, sono risonanze di un mondo lontano, echi di abissi e di cieli, susurri di esseri a noi sconosciuti, drammatici conflitti fra la carne e lo spirito; non lusingano sempre le nostre orecchie, ma riescono sempre a svegliare nel nostro spirito le immagini inconsistenti del sogno, la voce addormentata della coscienza, le ansie paurose del gran mistero.
Il pubblico affaccendato non si accorge di lui; egli non si accorge del pubblico, affaccendato com’è a rincorrere l’ombra sua, a raggiungere l’orizzonte ideale. Se tenesse in conto alcuno la fama, potrebbe dire con amarezza: — Son passato, e non mi hanno veduto; ho parlato e non mi hanno udito — . Quanti sono gli artisti che non ripetono sul tramonto questa dolorosa parola?