Pensieri e giudizi/II/V
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V.
A Michele Rapisardi, pittore elegantissimo, nato in Catania il 27 dicembre del ’22 e morto in Firenze il 19 dicembre 1886, non pietra nè parola ha consacrato la patria che di illustri favolosi e di pretazzuoli arroganti ha immortalato l’effigie, popolandone il più bel viale del pubblico Giardino.
Prima di Michele Rapisardi, un pittore solo degno di tal nome aveva avuto Catania: Olivio Sozzi1. Di lui possedeva la patria un’opera sola; e, mentre Spaccaforno e altri meschini comunelli dell’isola religiosamente conservano le opere del Sozzi, Catania di sapere albergo, come ognun sa, ha il vandalico vanto di aver distrutto quell’unica che possedeva, dico la vòlta della Biblioteca universitaria, da lui mirabilmente dipinto. La proposta della distruzione, fatta dal signor Conte Alessandro Moroni, allora bibliotecario, appoggiata dalle autorevoli relazioni del così detto Genio Civile, non contrastata dal signor rettore della Università, protestante invano qualcuno del Consiglio Accademico, e debolmente opponendosi il Comm. Francesco Di Bartolo, fu approvata dal regio governo ed eseguita con insolita alacrità. Ed ora la Biblioteca universitaria, trasformata in casamatta mirabile, ha la gloria di contenere qualche migliaio di più di libri, e tutta la zavorra teologico-giuridica che contiene non corre più il pericolo di essere esclusa dal santuario di Minerva.
Questa civilissima distruzione è quì richiamata non a rimprovero o condanna di chicchessia, ma ad escusazione e giustificazione di questo nobile paese che all’ingegno di Michele Rapisardi non ha creduto dedicare alcun segno d’onore2.
Non ignoro che dai macchiaioli del dì la pittura di Michele Rapisardi è tenuta in conto di accademica e di manierata; ma chi voglia e sappia considerare le dipinture dei Camuccini e dei Carta che allora tenevano il campo, essa apparirà rinnovatrice e ribelle così per gli ardimenti insoliti nell’aggruppar le figure, per la naturalezza delle pòse, la morbidezza delle carni, la verità profonda e la somma varietà delle espressioni, come per la molteplice fantasia, per la venustà inarrivabile delle forme, specialmente muliebri, per quell’intimo poetico sentimento che prorompe dal tutto insieme non solo, ma spira dall’aria di tutti i volti, anima tutti i particolari, dà valore e significato agli accessori più minuti di ogni composizione.
E quando si pensi che sì mirabili effetti erano ottenuti senza audacie di metodi nuovi, senza stridore di contrasti, senza neppur una di quelle furberie che formano la forza e la debolezza dei dipintori odierni, ma tutto conseguiva il Rapisardi, conformandosi scrupolosamente ai vecchi precetti, coi mezzi che allora dispensava la scuola, a via di gradazioni, di sfumature, di velature, non si può non ammirare la forza geniale dell’artefice che seppe in tanta angustia di formole esprimere una sì varia e soave fioritura di fantasie, circoscrivere in tanta purezza di linee una sì ricca esuberanza di sentimenti, essere rigido insieme ed elegante, classico e romantico, a un tempo.
Nella pittura del nostro Rapisardi io vedo come un anello di luce che unisce la vecchia alla nuova scuola, il reale al fantastico, il cielo delle anime all’abisso della voluttà. Forse per questo, quando tu contempli una di quelle morbide, sensuali, eppur sì graziose ed eteree creature di Michele, se l’anima tua non è chiusa affatto alle dolci commozioni dell’arte, tu senti intorno come una fragranza dolcissima di primavera; un crepuscolo, non sai se d’aurora o di tramonto, tinge l’aria di giacinti e di rose; tutte le attività del tuo spirito si acquetano e si armonizzano in un dormiveglia delizioso; mentre la più semplice e voluttuosa melodia di Bellini ti ravviva le immagini delle donne più caramente dilette; gli occhi si velano di lagrime e l’anima veleggia e si perde in un cielo di malinconiche visioni.