Pensieri e discorsi/La ginestra/VI
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VI.
Del Tutto. E la tua patria italiana, o Tristano, la tua patria, per la quale ardevi d’amore ringraziando il cielo d’averti fatto italiano, quella a cui, ventenne, nel compiere anzi il ventesimo anno, dicevi con voce di delirio: “O patria, o patria mia: non posso spargere il sangue per te, che non esisti più„; quella a cui, nella tua veemente canzone, auguravi la gloria e il ferro, a cui consacravi il tuo sangue, che doveva essere foco agl’italici petti; quella tua patria che intanto ha cautamente, lentamente, alzata la faccia di tra le ginocchia, e s’è guardata attorno, e s’è provata di alzarsi su due piedi, e s’è alzata, e già fa tintinnire le catene di cui è avvinta? Più tardi dicevi che dalle donne non poco aspettava la patria, e volevi la nuova stirpe amante del pericolo e della virtù, della sudata virtù; e, con una penetrazione dell’avvenire meravigliosa in un giovane conte dello stato pontificio, cresciuto nell’ombra della biblioteca e della chiesa, sotto lo sguardo d’un uomo ligio al governo clericale e nemicissimo d’ogni novità, volevi educazione forte, e armi.
E ora dunque, o Tristano? Leggo in una tua lettera: “Sapete che io abbomino la politica, perchè credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatto gli uomini alla infelicità„.
Ad Aspasia scrivevi così. Eppure in altri tempi dalla considerazione dell’infelicità umana traevi ben altre conclusioni. Dicevi che, poichè la vostra vita non vale se non a spregiarla, poichè è beata solo nell’oblio di sè stessa tra i pericoli mortali e nella gioia d’essersi da quelli poi sottratta, il forte non poteva far cosa più a sè utile, oltre che bella, che cimentare quella vita per la patria.
Come la conclusione oggi è così diversa? Perchè quel sogghigno di malaugurio nel vedere
nell’udire la setta sorta tra i topi ragionar con forza e leggiadriaD’amor patrio, d’onor, di libertade?
Vanità, vanità: dice il tuo cuore, stanco.