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[p. 135 modifica] anche trasportandolo dai tempi alle nazioni, giacché non è dubbio che la dose non sia presentemente molto minore in Francia che in qualunque altro paese, ec.; e cosí anticamente e in ciascuna età differente presso questo o quel popolo.


[p. 136 modifica]*   Dice Bacone da Verulamio che tutte le facoltà ridotte ad arte steriliscono. Della quale verissima sentenza farò un breve commento, applicandolo in particolare alla poesia. Steriliscono le facoltà ridotte ad arte, vale a dire gli uomini non trovano altro che le amplifichi, come trovavano quando ell’erano ancora informi e senza nome e senza leggi proprie, ec. e di ciò mi sovvengono (verbo usato in questo significato dal Tasso) quattro ragioni. La 1a: che quasi nessuno pensa piú ad accrescere una facoltà già stabilita, ordinata, composta e che si ha per perfetta, perché ognuno si contenta e si acquieta stimando la cosa già compíta; il che non accadeva prima della sua riduzione ad arte, ma ciascuno che capitava a coltivare questa facoltà, si lambiccava il cervello per ampliarla, perché non avea nome d’esser arte; quando l’ha avuto, quando anche in fatti non sia piú ricca di prima, par ch’ell’abbia già il tutto. La 2a (e questa è relativa particolarmente alla poesia): perché moltissimi, anzi quasi tutto il volgo di quelli che si applicano alla poesia (dite lo stesso proporzionatamente delle altre facoltà) non ardiscono di violare nessuna delle regole stabilite, di mettere il piede un dito fuori della traccia segnata dai predecessori, credendo pedantescamente che il poetare non si possa eseguire senza stare a quelle leggi, in somma la 2a ragione è la pedanteria. La 3a, piú comune alle persone di senno e giudiziose e capaci, e anche esimie: è il costume e l’abitudine dal quale non si sanno staccare parte relativamente a se, parte agli altri: a se, perché coll’abito preso di leggere, di sentire, di scrivere quella tal sorta di poemi di tragedie ec., non sanno fare altrimenti quantunque non siano ritenuti da nessuna superstizione: agli altri, perché non ardiscono di abbandonare la consuetudine corrente, e quantunque non sieno schiavi dei pregiudizi, tuttavia dovendo comporre qualche poesia, non si risolvono a parere stravaganti, ideando cose non piú sentite; dovendo pubblicare un’azione drammatica ed [p. 137 modifica]esporla agli occhi del popolo, se la facessero di capriccio e senz’adattarsi alla forma usata crederebbero meritarsi le risa o il biasimo universale; se componessero un poema epico di forma differente da quella che si costuma da tutto il mondo stimano, e in certo modo con ragione, che dovrebbero essere ripresi d’aver barattati i nomi, non ricevendosi per poema epico se non quello che è in questa forma consueta. E cosí è in fatti; che, se uno intitola la sua opera tragedia, il pubblico si aspetta quello che si suole intendere per tragedia, e trovando cosa tutta differente se ne ride. Né senza ragione, perché il danno dell’età nostra è che la poesia si sia già ridotta ad arte, in maniera che per essere veramente originale bisogna rompere, violare, disprezzare, lasciare da parte intieramente i costumi e le abitudini e le nozioni di nomi di generi ec. ricevute da tutti: cosa difficile a fare, e dalla quale si astiene ragionevolmente anche il savio, perché le consuetudini vanno rispettate massimamente nelle cose fatte pel popolo, come sono le poesie, né va ingannato il pubblico con nomi falsi.