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[p. 137 modifica] E dare una nuova poesia senza nome affatto e che non possa averne dai generi conosciuti è ragionevole bensí, ma di un ardire difficile a trovarsi, e che anche ha infiniti ostacoli reali, e non solamente immaginari né pedanteschi. La 4a, e la piú forte e la piú considerabile: che, quando anche un bravo poeta voglia effettivamente astrarre da ogni idea ricevuta, da ogni forma, da ogni consuetudine, e si metta a immaginare una poesia tutta sua propria, senza nessun rispetto, difficilissimamente riesce ad essere veramente originale o almeno ad esserlo come gli antichi, perché a ogni momento anche senz’avvedersene, senza volerlo, sdegnandosene ancora, ricadrebbe in quelle forme, in quegli usi, in quelle parti, in quei mezzi, in quegli artifizi, in quelle immagini, in quei generi ec. ec.; come un riozzolo d’acqua che corra per [p. 138 modifica]un luogo dov’è passata altr’acqua, avete bel distornarlo, sempre tenderà e ricadrà nella strada ch’è restata bagnata dall’acqua precedente. Giacché la natura somministra ben da se idee sempre differenti e sempre nuove, e se un poeta non fosse stato conosciuto dall’altro appena si sarebbero trovati due poeti che avessero fatti poemi somiglianti, perché questo non sarebbe stato se non opera del caso, il quale difficilmente produce simili combinazioni, che ognuno vede quanto sian rare in ogni genere. Perciò, quando gli esempi erano o scarsi o nulli, Eschilo per esempio inventando ora una ora un’altra tragedia senza forme, senza usi stabiliti, e seguendo la sua natura, variava naturalmente a ogni composizione. Cosí Omero scrivendo i suoi poemi vagava liberamente per li campi immaginabili, e sceglieva quello che gli pareva; giacché tutto gli era presente effettivamente, non avendoci esempi anteriori che glieli circoscrivessero e gliene chiudessero la vista. In questo modo i poeti antichi difficilmente s’imbattevano a non essere originali, o piuttosto erano sempre originali, e s’erano simili era caso. Ma ora con tanti usi, con tanti esempi, con tante nozioni, definizioni, regole, forme, con tante letture ec., per quanto un poeta si voglia allontanare dalla strada segnata, a ogni poco ci ritorna: mentre la natura non opera piú da se, sempre naturalmente e necessariamente influiscono sulla mente del poeta le idee acquistate che circoscrivono l’efficacia della natura e scemano la facoltà inventiva, la quale se ciò non fosse, malgrado i tanti poeti che ci sono stati, saprebbe ben da se ritrovar naturalmente e senza sforzo (parlo della facoltà inventiva di un vero poeta) cose sempre nuove e non tocche da altri, almeno non in quella maniera ec.


*   Una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo paragonato alle bestie che [p. 139 modifica]sono felici o quasi felici; quando la previdenza de’ mali, (che nelle bestie non è) le passioni, la scontentezza del presente, l’impossibilità di appagare i propri desideri e tutte le altre sorgenti d’infelicità ci fanno miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra, che lo porta né si può mutare. Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti; perché ripugna alle leggi che si osservano seguite costantemente in tutte le opere della natura che vi sia un animale, e questo il piú perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli altri e di questo intiero globo, il quale racchiuda in se una sostanziale infelicità e una specie di contraddizione colla sua esistenza, al compimento della quale non è dubbio che si richieda la felicità proporzionata all’essere di quella tale sostanza (che per l’uomo è impossibile di conseguire), e una contraddizione formale col desiderio di esistere ingenito in lui come in tutti gli animali, anzi proporzionatamente in tutte le cose; giacché un uomo disperato della vita futura ragionevolissimamente detesta la presente, se n’annoia, ne patisce (cosa snaturata) e s’uccide come vediamo che fa (impossibile ne’ bruti). L’uccidersi dell’uomo è una gran prova della sua immortalità. Verri, Notte Romana 5, colloquio 5.