<dc:title> Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Giacomo Leopardi</dc:creator><dc:date>XIX secolo</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Zibaldone di pensieri I.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Pensieri_di_varia_filosofia_e_di_bella_letteratura/22&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20130712191752</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Pensieri_di_varia_filosofia_e_di_bella_letteratura/22&oldid=-20130712191752
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura - Pagina 22 Giacomo LeopardiZibaldone di pensieri I.djvu
[p. 106modifica] ec., in somma terrestri, cerca l’utile suo proprio, sia consistente nel danaro o altro, diventa egoista necessariamente, né si vuol sacrificare per sostanze immaginarie, né comprometter se per gli altri, né mettere a repentaglio un bene maggiore, come la vita, le sostanze ec., per un minore, come la lode ec. (lasciamo stare che la civiltà fa gli uomini tutti simili gli uni agli altri, togliendo e perseguitando la singolarità, e distribuendo i lumi e le qualità buone, non accresce la massa, ma la sparte, sí che ridotta in piccole porzioni fa piccoli effetti). Quindi l’avarizia, la lussuria e l’ignavia, e da queste la barbarie che vien dopo l’eccesso dell’incivilimento. E però non c’è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Staël ec., ma barbaro; al che noi c’incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati. La piú gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura (seguíta però a dovere); [p. 107modifica]essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile; e certo nessuno chiamerà barbari i romani combattenti i cartaginesi né i greci alle Termopile, quantunque quei tempi fossero pieni di ardentissime illusioni, e pochissimo filosofici presso ambedue i popoli. Le illusioni sono in natura, inerenti al sistema del mondo; tolte via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato; ogni popolo snaturato è barbaro, non potendo piú correre le cose come vuole il sistema del mondo. La ragione è un lume: la natura vuol essere illuminata dalla ragione, non incendiata. Come io dico accadde appresso i greci e i romani: al tempo di Longino già erano quasi barbari, eppure non c’era stata nessuna irruzione straniera; dalla terra stessa loro nacque la barbarie, da quelle civilissime terre, perché la civiltà era eccessiva. Cicerone era il predicatore delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma poi tutte le altre orazioni sue politiche: sempre sta in persuadere i Romani a operare illusamente: sempre l’esempio de’ maggiori, la gloria, la libertà, la patria: meglio la morte che il servizio: che vergogna è questa? Antonio, un tiranno di questa razza, ancora vive ec. E intanto Antonio, che sarebbe stato pugnalato nel foro o nella curia in altri tempi, tiranno vergognosissimo, non si poteva ottenere in Roma, essendoci tante armate contro di lui, tanto motivo di sperare che sarebbe vinto che fosse dichiarato nemico della patria: calcolavano, cercavano ec. quello che in altri tempi senza un istante di deliberazione sarebbe stato deciso a pieni voti. Cicerone predicava indarno: non c’erano piú le illusioni d’una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria, la gloria, il vantaggio degli altri, dei posteri ec.: eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile, consideravano quello che in un caso poteva succedere: non piú ardore, non impeto, non grandezza d’animo: l’esempio de’ maggiori [p. 108modifica] era una frivolezza