<dc:title> Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Giacomo Leopardi</dc:creator><dc:date>XIX secolo</dc:date><dc:subject></dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Zibaldone di pensieri I.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Pensieri_di_varia_filosofia_e_di_bella_letteratura/20&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20130712191657</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Pensieri_di_varia_filosofia_e_di_bella_letteratura/20&oldid=-20130712191657
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura - Pagina 20 Giacomo LeopardiZibaldone di pensieri I.djvu
[p. 102modifica] se quand’uno ha concepito non ha fatto appena metà del cammino, se mille e centomila che provando affetti e sentendo vivamente hanno scritto non sono riusciti a muovere negli altri gli stessi affetti e non si leggono da nessuno, se infiniti esempi e ragioni provano quanto sia la forza dello stile e come una stessa immagine esposta da un poeta di vaglia faccia grand’effetto e da un inferiore nessuno, se Virgilio senz’arte non sarebbe stato Virgilio, se in poesia un bel corpo con vesti di cencio, dico, bei sensi senza bello [p. 103modifica]stile, ordine, scelta ec. non si soffrono e non si leggono e sono condannati non mica dai pregiudizi, ma dal tempo giudice incorrotto e inappellabile, se colla proprietà, eleganza, nobiltà ec. ec. ec. delle parole e della lingua e delle idee, colla scelta, coll’ordine, colla collocazione ec. ec. infinite necessarissime doti si procacciano alla poesia; c’è bisogno dell’arte, e di grandissimo studio dell’arte, in questo nostro tempo massimamente, per le ragioni che piú volte in questi pensieri ho scritto. E noi vediamo che i grandi scrittori, quelli che tutto il mondo venera, quelli cosí infinitamente superiori ai pregiudizi, quelli finalmente i quali se non sono veramente ed eternamente grandi non c’è piú cosa grande né speranza di diventar grande, noi vediamo che Cicerone (e l’eloquenza è cosa molto simile alla poesia) studiò profondissimamente l’arte sua e la sua lingua e la grammatica e gli esemplari greci quanto mai si può pensare, ec. e con tutto questo studio non diventò già un uomo da nulla né un pedante né un imitatore e che so io, ma diventò un Cicerone; e se Cicerone come scrittore e oratore; o signor Breme, non vi quadra, come né anche Pindaro né Orazio, vi do subito la buona notte, e mi dispiace di non averlo saputo prima (e già di sopra s’è osservato che il primitivo bisogna impararlo dagli antichi). Non si ricorda il Breme di quella osservazione filosofica che è pur vecchia, dico, che i mezzi piú semplici e veri e sicuri sono gli ultimi che gli uomini trovano, cosí nelle arti e nei mestieri come nelle cose usuali della vita, e cosí in tutto. E cosí chi sente e vuol esprimere i moti del suo cuore ec. l’ultima cosa a cui arriva è la semplicità e la naturalezza, e la prima cosa è l’artifizio e l’affettazione; e chi non ha studiato e non ha letto, e insomma come costoro dicono è immune dai pregiudizi dell’arte, è innocente ec. non iscrive mica con semplicità, ma tutto all’opposto; e lo vediamo nei fanciulli che per le prime volte [p. 104modifica]si mettono a comporre. Non iscrivono mica con semplicità e naturalezza, che se questo fosse, i migliori scritti sarebbero quelli dei fanciulli; ma per contrario non ci si vede altro che esagerazioni e affettazioni e ricercatezze benché grossolane, e quella semplicità che v’è non è semplicità, ma fanciullaggine; cosí dite di certe canzoni volgari, ec. ec. che per un certo verso son semplici, ma mettete un poco quella semplicità con quella di Anacreonte che pare il non plus ultra, e vedete se vi pare che si possa pur chiamare semplicità. Onde il fine dell’arte che costoro riprovano, non è mica l’arte, ma la natura, e il sommo dell’arte è la naturalezza e il nasconder l’arte, che i principianti o gl’ignoranti non sanno nascondere, benché n’hanno pochissima, ma quella pochissima trasparisce, e tanto fa piú stomaco quanto è piú rozza; e i nove anni d’Orazio dei quali il Breme si fa beffe, non sono mica per accrescer gli artifizi del componimento, ma per diminuirli o meglio per celarli accrescendoli, e insomma per avvicinarsi sempre piú alla natura, che è il fine di tutti quegli studi e di quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di cui si burlano i romantici, contraddicendo a se stessi; che mentre