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[p. 95 modifica] tutto da per se, senz’artifizio, e senza che questo monte sappia in nessunissimo modo di dover eccitare questi sentimenti, né ch’altri ci aggiunga perché li possa eccitare, nessun’arte ec. ec. In somma questi oggetti, insomma la natura da per se e per propria forza insita in lei, e non tolta in prestito da nessuna cosa, sveglia questi sentimenti. Ora che faceano gli antichi? dipingevano [p. 96 modifica]cosí semplicissimamente la natura, e quegli oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza questi sentimenti, e li sapevano dipingere e imitare in maniera che noi li vediamo questi stessi oggetti nei versi loro, cioè ci pare di vederli, per quanto è possibile, quali sono in natura; e perché in natura ci destano quei sentimenti, anche dipinti e imitati con tanta perfezione ce li destano egualmente; tanto piú che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro vero lume, e coll’arte sua ci ha preparati a riceverne quell’impressione, doveché in natura e gli oggetti di qualunque specie sono confusi insieme e in vederli spessissimo non ci si bada (qui cade la gran facoltà delle arti imitative di fare per lo straordinario modo in cui presentano gli oggetti comuni, vale a dire cosí imitati, che si considerino nella poesia, doveché nella realtà non si consideravano, e se ne traggano quelle riflessioni ec. ec. che nella realtà per esser comuni non somministravano ec. ec. come il Gravina nella Ragion Poetica), e bisogna poi perché producano quei tali sentimenti andarli a prendere pel loro verso; ed ecco ottenuto dagli antichi il grand’effetto, che domandano i romantici, ed ottenuto in modo che ci rapiscono e ci sublimano e c’immergono in un mare di dolcezza, e tutte le età e tutti i secoli e tutti i grandi uomini e poeti che son venuti dopo di loro ne sono testimoni. Ma che? quando questi poeti imitavano cosí la natura e preparavano questa piena di sentimenti ai lettori, essi stessi o non la provavano, o non dicevano di provarla; semplicissimamente, come pastorelli, descrivevano quel che vedevano, e non ci aggiugnevano niente del loro; ecco il gran peccato della poesia antica, per cui non è piú poesia, e i moderni vincono a cento doppi gli antichi, ec. ec. E non si avvedono i romantici che, se questi sentimenti son prodotti dalla nuda natura, per destarli bisogna imitare la nuda natura, e quei semplici e innocenti oggetti, che per loro propria [p. 97 modifica]forza, inconsapevoli, producono nel nostro animo quegli effetti, bisogna trasportarli come sono né piú né meno nella poesia; e che cosí bene e divinamente imitati, aggiuntaci la maraviglia e l’attenzione alle minute parti loro, che nella realtà non si notavano e nella imitazione si notano, è forza che destino in noi questi stessissimi sentimenti che costoro vanno cercando, questi sentimenti che costoro non ci sanno di grandissima lunga destare; e che il poeta quanto piú parla in persona propria e quanto piú aggiunge di suo tanto meno imita (cosa già notata da Aristotele, al quale, volendo o non volendo, senz’avvedersene si ritorna), e che il sentimentale non è prodotto dal sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura qual ella è bisogna imitare, ed hanno imitata gli antichi; onde una similitudine d’Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti e un’ode d’Anacreonte vi destano una folla di fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza paragone piú che cento mila versi sentimentali, perché quivi parla la natura, e qui parla il poeta; e non si