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Epilogo

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Parte seconda - Dieci anni dopo Indice generale
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Epilogo


Epilogo straziante di una tragedia che colpì nel cuore tutta quanta la Nazione.

Lo strido dell’acquila Sabauda echeggia anche oggi, lamentoso, dalla cripta di Superga fino alla vôlta del Panteon.

L’argentea Croce del suo scudo Reale si nasconde ancora dentro un drappo lugubre di gramaglia....

E là, sul modesto campanile del Chievo, le due fide bandiere che, liete salutarono i risvegli di Umberto, aspettano, lacere e a mezz’asta, che la furia del tempo le distrugga per sempre.

Via.... via dalle labbra il sorriso!

La penna, intinta nelle lagrime e nel sangue, tracci su queste pagine l’ultima nota!

Il dì 16 dell’Ottobre 1900, anniversario della entrata a Verona dei soldati liberatori di Vittorio Emanuele, si portavano alla villa del Chievo tutte, si può dire, le autorità civili militari e politiche della città e della provincia; non che molte società operaie colle loro bandiere, per assistere alla inaugurazione di due lapidi, destinate a ricordare nel futuro, il soggiorno di Re Umberto in quel posto, negli anni 1887 e 1897.

All’omaggio del privato cittadino volle unirsi [p. 394 modifica]anche quello del Comune di S. Massimo all’Adige — del quale il Chievo è una frazione, — deliberando d’intitolare, al nome venerato dell’estinto Sovrano, la piazza maggiore del paese e la strada che mette direttamente alla villa. E parve opportuna e patriottica la scelta del 16 ottobre, siccome quella che richiamava al pensiero il fausto giorno in cui Verona, plaudente e giubilante, vide sventolare dentro le sue mura il Tricolore italiano, ornato dall’emblema caro di quella Casa che registra nelle pagine immortali della sua storia otto secoli di glorie, e di ogni più fulgida virtù militare e civile.



Questa Casa di Savoja, antica quercia, difesa oggi d’Italia, dentro i rami della quale, nessun genio malefico, anche uscito dall’inferno, avrebbe ardito mai di preconizzare il nome di un Re assassinato!

Nella lapide esterna, murata a sommo del balcone che metteva nelle stanze abitate allora da S. M. il Re, leggesi:

UMBERTO PRIMO
IL RE PRODE — GENEROSO — LEALE
NEGLI ANNI 1887 E 1897
VOLLE DI QUESTA CASA FARE LA SUA DIMORA
QUI DI LUI TUTTO PARLA
E QUI TORNANDO
LA GRANDE OMBRA VENERATA E CARA
UDRÀ DA OGNI PARTE RIPETUTO IL PROPRIO NOME
ETERNAMENTE ACCOMPAGNATO
DA UNO SCROSCIO DI PIANTO.

[p. 395 modifica]E nella lapide interna, collocata nella stanza da letto, le altre parole:

IN QUESTA STANZA
UMBERTO IL BUONO
DORMÌ TRANQUILLO LE SUE NOTTI
FIDENTE
NELL’AMORE D’ITALIA.

Fino dalla prima volta che Re Umberto, dopo tre giorni di dimora, lasciava il Chievo, ci si consigliava di murare un ricordo della reale presenza in quei luoghi.

Lo stesso consiglio ci veniva ripetuto quando Sua Maestà lasciava, nel 1897, la villa dopo un più lungo soggiorno.

— “Se il nostro buon Re tornerà qui per la terza volta, e allora — eliminato anche ogni sospetto di vanità personale — inaugureremo il ricordo!„ — Così si rispose allora.

— La terza volta!?...

Scrivendo queste parole, corre un fremito per tutte le vene.

Chi avrebbe pensato allora.... chi mai avrebbe nemmeno sognato, che del povero Re Umberto, fra quelle pareti, più non sarebbe tornata.... che l’ombra venerata e cara, di cui parla l’epigrafe?!...

Fu solamente dopo l’atroce assassinio — da S. M. la Regina Margherita chiamato, a ragione, il più gran delitto del secolo — che la inaugurazione di una lapide al Chievo, divenne un atto doveroso di gratitudine e di affetto.

Informato della cerimonia il giovane Monarca, figlio di Umberto, fece subito telegrafare, che: — “L’omaggio reso nel futuro alla memoria dell’amato Suo Genitore, nei luoghi dove l’Estinto aveva ricevuto tante e così spontanee prove di devozione, riempiva di riconoscenza il suo cuore di figlio„.

I generali Luigi Pelloux e il conte Coriolano Ponza di S. Martino, ch’erano stati nel 1897 al seguito di S. M. — il primo, come ministro della Guerra, l’altro come aiutante di campo generale — impediti da gravi impegni, scrissero e telegrafarono che: — “Alla cerimonia, che si compiva nel luogo che loro rammentava i lieti giorni trascorsi accanto all’amato Sovrano, volevano essere presenti almeno col pensiero e col cuore„.

Fra gl’intervenuti spiccava la veneranda figura del Vescovo missionario Bonomi, onore del clero e di Verona; contento di essere tornato in tempo dalle terre africane per potere, in qualche modo, rendere un estremo tributo di affetto e di rimpianto alla cara memoria del migliore dei Re.

Allo scoprimento della lapide parecchi furono i discorsi. Subito dopo [p. 396 modifica]
 
 
[p. 397 modifica]quello nobilissimo del cavaliere Giovanni Bottagisio, sindaco di S. Massimo, prese la parola il comm. Luigi Dorigo, presidente della Deputazione provinciale veronese. Questi rievocò il giorno della redenzione, e gli atti di valore compiuti nel 1866 dal giovane Principe di Piemonte nella vicina terra di Villafranca, e conchiuse esclamando:

“Oh giorni cari e indimenticabili!... Oh giorni di entusiasmo e di amore!

Oggi noi siamo qui per assistere a una manifestazione di affetto e di devozione al lagrimato nostro Re; ma nel far questo le anime nostre fremono pensando che questo Re ci fu tolto dal piombo di uno dei figli suoi, dal piombo di un italiano.

Ah! lungi, lungi dalle nostre labbra il nome maledetto del parricida: resti su di esse soltanto la nostra esecrazione perenne. E, ad espiazione del delitto, in onore del Re martire, sorgano dovunque, per ogni città e per ogni terra italiana, lapidi, ricordi, fondazioni, che ne tramandino ai posteri il nome immacolato e il culto delle sue grandi virtù„.

Le nobili parole dei due oratori furono coperte d’applausi vivi e prolungati in mezzo a una generale commozione.

Dopo di lui, il comm. Antonio Guglielmi, sindaco di Verona, non meno commosso — detto che Umberto dopo aver fatto del Principe un apostolo di amore per quel popolo in mezzo a cui visse beneficando, era caduto per opera di un infame sicario, emanazione di una scuola falsa e bugiarda, negazione di Dio e della civiltà — suggellava la patriottica improvvisazione con queste parole di fuoco:

“Nell’alba infausta del 30 luglio, dando l’annunzio doloroso alla mia città del grande delitto, mi erompeva dal cuore angosciato una imprecante invocazione sull’infame assassino e sui malvagi — di lui più perversi — che gli hanno armata la mano!

Oggi, davanti a questa lapide, quella imprecazione rinnovo!...„

Grido che rispondeva al sentimento di tutti i presenti; imprecazione, nella quale era altresì raccolto l’intimo sentimento di ogni anima italiana!


Ed ora.... volgiamo altrove lo sguardo.

Rechiamoci accanto a quella addolorata, la quale doveva provare, più atrocemente, lo spasimo di tanta ferita!... Colei che il mondo aveva il diritto di ritenere la donna più invidiata che cingesse Corona; Colei che, appoggiata al braccio di Umberto, si recava sorridente in mezzo al suo popolo, [p. 398 modifica]colla stessa tranquillità d’animo con cui una buona e tranquilla madre di famiglia borghese, esce al braccio dello sposo dopo una settimana di onesto lavoro, da lui accompagnata a godere un po’ di sole della domenica.



Seguiamo Margherita di Savoja, col pensiero, su su, verso le vette candide de’ suoi prediletti ghiacciai indorati dal sole; lungi dai miasmi.... e dai delitti della terra.... fuori da quell’afa che ci avvelena. Seguiamola lassù, dove la terra sembra tanto lontana, e il cielo così vicino.


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Margherita - 24 novembre 1901.


[p. 400 modifica]Lassù, dove cogli occhi della mente ci sembra ancora di vederla, dipinta in costume, dal pennello di Giuseppe Bertini, a cercare fra le nevi il bianco fiore delle Alpi.

Ahimè!... Ieri, su quelle vette eccelse, Margherita di Savoja rappresentava il sorriso d’Italia: oggi, vestita in gramaglia — stridente contrasto! — ne rappresenta il dolore!...

Ma ecco che, dalla addolorata madre, il pensiero ci conduce presso il giovane Re, figlio di Umberto e nipote di quel Grande di cui porta il nome. Seguiamone i passi sotto la silenziosa vôlta del Panteon, dove sono custoditi i resti mortali dei due primi Re d’Italia. Davanti a quelle due tombe noi lo vedremo, impavido e sicuro stendere la destra e giurare.... Giurare di mantenere incolume, grande e rispettata quella patria, che, per grazia di Dio e volontà di popolo, dall’avo e dal padre ereditava.

L’alto intelletto, le tradizioni della razza, la forte volontà sua, ci dicono che il giovane Vittorio Emanuele, nel fatale andare dei tempi nuovi saprà contrapporre agli arditi voli delle giovanili energie, la prudenza di una mente anzitempo matura, congiunta a una veramente ammirevole antiveggenza del cuore. Antiveggenza della quale diede eloquente manifestazione nell’atto più solenne della vita di un uomo; e specialmente nella vita di un principe; la scelta, cioè di Colei che doveva un giorno, cingere al suo fianco la corona d’Italia.

La scelta della propria compagna, per l’erede di un trono, quando in luogo delle egoistiche esigenze diplomatiche di Stato, sgorga spontanea da un’intima spinta del sentimento individuale, offre già una prova infallibile di quel tutto insieme di doti che sono garanzia della felicità avvenire di un popolo. Imperocchè siamo convinti che non può essere un buon Capo dello Stato quel Re, il quale non abbia saputo prima apprezzare, in tutto il loro valore, i tesori intimi della famiglia.

E, invero, questo principe che, volendolo, avrebbe potuto scegliere la sposa fra le pareti delle più potenti corti di Europa.... che cosa fa invece?... Ascende le vette del forte Montenegro, e va a scegliere per compagna della vita.... Elena — la dolce figlia di Milena — convinto che nessun’altra principessa, fosse pure nata da Re o da Imperatore, avrebbe potuto per nobiltà di sentimenti, per tradizionale coltura, per semplicità di costumi e di vita, meglio di Lei seguire alla Corte d’Italia, la traccia luminosa di Margherita di Savoja.


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Elena di Montenegro
Elena di Montenegro


[p. 402 modifica]Laonde noi, volendo pur chiudere queste pagine con una nota simpatica che chiami un dolce sorriso sulle labbra del lettore, le chiuderemo.... nel nome di Elena, figlia di Milena. Di Elena, Regina d’Italia, dai grandi occhi eloquenti; dalla candida fronte serena, rivelatrice di quella rara dote che si chiama la modestia; e che, nella donna chiamata a sedere in trono, è uno dei più preziosi coefficienti promettitori di bene.



Qui, con quella impunità che hanno gli scrittori, di guardare a traverso i vetri — e, magari, penetrare nell’intimo delle altrui pareti — ci permettiamo di entrare nella dimora dei Petrovich Niègoch.... senza correre il rischio di essere citati in tribunale per violazione di domicilio.

In quell’ambiente patriarcale e sano, ecco che c’incontriamo, anzitutto, con Nicola I, il Capo dello Stato Montenegrino, e il capo di numerosa prole; il quale, giunto sul robusto pendio di quell’età che precipita — nove volte padre fortunato e felice — sente ancora agitarsi nel lago del cuore tale un’onda di gentile poesia, da consacrare alla diletta sua compagna, alla principessa Milena, l’ode più alata che possa sgorgare da fantasia di giovane poeta.

Nel leggere quei versi pare, davvero, di trovarci davanti ai voli di un cuore di vent’anni, il quale dedichi i suoi primi palpiti all’ideale dei propri sogni.

L’ode, dedicata a Milena, che noi, malamente, ma quasi letteralmente traduciamo, così comincia:

«Se tutti quanti i fior che tu spargesti
   della dolce mia vita sul sentier
   raccolti avessi, e respirar di questi
   l’olezzo, fosse stato in mio poter,
dettato un libro, o mia Milena, avrei
   quale nel mondo non apparve ancor:
   affidati ad un carme i versi miei
   sarian volati oltre le nubi d’or...»

Qui il principe poeta, presi a tema del canto, la mente, il cuore, e le virtù della donna, dice di volerla trasportare in aere tanto elevato, che l’alito umano non possa più offenderla. E, dopo aver collocato in una ghirlanda di fiori, l’amore della patria — che dice sacro dovere nell’uomo, [p. 403 modifica]e fecondo di ogni bene nel cuore della donna — termina lo ispirato canto:

«Così, sculto qual legge, andria il tuo nome
nel volume per te reso immortal;
così la tua virtù splenderia, come
splende in un serto gemma imperïal!»

Ora noi non possiamo a meno di compiacerci verso noi stessi nel riflettere che, se tali manifestazioni poetiche rivelano la nobile anima di chi le pensa e le scrive, sovratutto ci dicono da quale nido purissimo sia uscita quella principessa che oggi è diventata tanta parte della grande famiglia italiana.

Ecco dunque che, fusi in sublime armonia la intelligenza e il sentimento, splende un raggio fulgido sulla fronte del giovane Re d’Italia, pegno di prosperità e di salute della patria cara. Quello stesso raggio che lo ispirava, con fine potenza sensitiva, d’imporre al fonte battesimale della sua primonata — insieme ai nomi di Margherita e Milena — quello di Iolanda di Francia, duchessa di Savoja; sicuro in ciò, che il nome immortale della saggia sposa del Beato Amedeo, dovesse tornare, del pari gradito, e alla Regale madre sua, e alla madre della sua sposa e Regina.

Così confidiamo, non debba tornare a S. M. sgradito, che noi, dopo ricordati i nomi venerati degli avi e del padre suo, dopo aver ricordate alcune pagine di gloria di quell’Esercito di cui è Capo, ci siamo permessi di far vibrare la nota, che deve tornare più dolce al suo cuore di marito o di padre.

Nel chiudere poi questo volume — nel quale abbiamo tentato di versare tutto quel poco che ancora ci rimane degli antichi palpiti — mandiamo reverenti un saluto, memore e riconoscente, verso quei vivi e verso quei morti, che coll’opera e col sangue, col senno e colla mano, hanno sperato di rendere — colla libertà — unita e grande la patria.