Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/XVI
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XVI
RELIGIONE
Si afferma che Dio lo hanno i Pampa, ma ciò deve considerarsi come importazione recente pel fatto del continuo contatto dei Pampa con i Cristiani e con i loro fratelli del Cili convertiti al Cristianesimo poco dopo la conquista.
Se non hanno Dio gli abitanti del Ciacco, hanno però religione: la religione degli spiriti e, in embrione, quella degli astri.
Io credo che non si possa dubitare che gli Indiani del Ciacco sian, civilmente considerati, tanto primitivi quanto gli altri Indiani e selvaggi del mondo.
Ora si afferma da alcuni filosofi storici, che il primo stadio religioso dell’uomo è feticismo, che vuol dire religione dei feticci, parola con cui i neri Africani indicavano gli oggetti bruti della loro adorazione. Ed io penso che senza negare che ciò possa essere, o essere stato per quei popoli, debba però affermarsi ancora che, almeno presso gli Indiani di qua, il feticismo non è il primo stadio religioso, ma lo spiritismo, del modo che più sotto vedremo.
Mi pare che alcuni filosofi, tra cui Humboldt nel suo Cosmos, abbiano notato il medesimo fatto, e gli abbiano dato una parola che non ricordo.
I Messicani però e i Peruani, nazioni fortemente ordinate e assai avanzate nella civiltà, si trovavano in un secondo stadio, quello della religione degli astri e degli idoli, sotto cui si sono sviluppate tra noi potenti civiltà asiatiche e la greca e la romana delle quali siamo eredi immediati.
Nel punto di passaggio tra questo secondo stadio e un terzo, il più elevato, dell’affermazione di un Principio impersonale, eterno, tutto potente, tutto creatore, siamo noi, che a cotesta affermazione uniamo il demonio, le incarnazioni, le adorazioni, i sacerdozii, i templi, i santi, gli amuleti, il triplice regno della vita extramondana. Anzi, diamo anche qualche ritocchino, proprio a dimostrare che siamo tutti fratelli, al primo stadio, con le apparizioni, le estasi, gli esorcismi, gli angioli tutelari e quelli tentatori, gli uni a destra, gli altri a sinistra di ogni individuo della povera umanità.
Resta difficile informarsi dagli Indiani delle loro credenze: essi, mentre nutrono un profondo disprezzo verso le astruserie dei Cristiani, temono nondimeno il ridicolo e la minaccia e la catechizzazione dei loro presuntuosi e intolleranti nemici.
a Faustino, cristiano ricoverato tra loro, quando gli chiedevo il perchè di alcune pratiche religiose, mi rispondeva: «Ignoro, señor; yo no pregunto nada, porqué los Indios desconfian mucho»1.
Quello che passo a dire l’ho raccolto dalla bocca di alcuni di loro dopo aver tentato di inspirar confidenza col tratto, coi regali e con molto contatto, e, ne chiedo l’assoluzione al sommo Pontefice, per essermi unito ad essi in trovar bello l’attaccamento alla religione dei loro padri, stile ortodosso, in biasimare la pretensione dei Cristiani a convertirli, in ispregiare il disprezzo di questi contro loro, e infine in ridere di cuore con loro di tutte le baroccherie cristiane.
Qui mi spiego. Sentite: io ho un profondo rispetto per la religione dei miei avi e dei miei genitori: anzi, ora che i miei anni principiano a marciare in ragione inversa dei miei denti, mi pento molto di aver fatto arrabbiare da ragazzo l’amorosa genitrice che ci trovava recalcitranti e trascurati all’invito pietoso di pregar col rosario pace alla memoria dei nostri cari e del prossimo. Arrossisco quando mi rammento che da giovinetto credevo di fare atto di spirito, uscendo a mezza messa dalla Chiesa della mia Parrocchia con grave scandalo dell’affettuoso e degno Priore e dei devoti campagnuoli, mentre sarebbe stato più semplice il non andarvi. Sento una gratitudine, che mi pare durerà quanto la vita, pei buoni Padri Scolopi che per tanti anni mi compartirono il pan dello intelletto ma tutti questi pentimenti, rossori e gratitudini, non arrivano a ispirarmi fanatismo alcuno per questa macchina che si chiama il Cristianesimo, e nessuna premura per la conversione di questi innocenti e liberi infedeli, che nel battesimo troverebbero il capo saldo della catena della loro schiavitù2.
Lo so: mi si obietterà che, presa la cosa anche sotto il solo punto di vista umano, è sempre un progresso per questi selvaggi entrare nella vita civile, sia pure per la porta del Cristianesimo, e che è un progresso per tutta la Società l’incrociamento delle stirpi.
Ed io contrappongo, che non bisogna affrettarsi a concedere che sia un miglioramento sociale l’incrociamento di stirpi ormai tanto distanti, e che piuttosto c’è da temerne un prodotto ibrido che a mo’ dei muli, abbiano i corbelli per corbellatura, come barzellettava il Giusti; e i fatti, almeno stando alle grida dei figli di questo continente, che continuamente si lagnano delle poche supposte goccie di sangue indigeno che circolerebbero per le loro vene, mi pare non mi dieno torto. E rispetto ai soli selvaggi, quali benefizii ne ritrarrebbero eglino dall’entrare nella nostra società? La loro origine ed il loro colore sarebbero il primo ostacolo alla loro felicità, e anche quando volessimo supporre che partecipassero alle condizioni della nuova società nella stessa misura dei Cristiani, sarebbe sempre vero che solamente una microscopica parte ne godrebbe, il resto divenendo tanti pezzenti, precisamente come tra gli orgogliosi figli della civiltà cristiana si avvera ancor oggi.
Presso i Mattacchi, gli spiriti sono chiamati ahót3, i Villela li chiamano cokss.
Questi spiriti abitano sotterra, ma di notte vagolano per il mondo, presso le abitazioni, entrano anche nelle persone, e le infermano il più delle volte. Gli ahót vanno a cavallo del vento, accompagnano o sono essi la tempesta, ballano la ridda intorno alle tolderie, ai toldi e alle persone che vogliono offendere. L’ahót il più terribile è il vaiolo, contro cui nulla possono gli stregoni; sicchè al suo presentarsi in una hauet-éi (tolderia) tutti gli Indiani si affrettano a lasciarla, dandola ancora alle fiamme molte volte, abbandonandovi gli infermi. Nondimeno il vaiolo mena stragi, dovuto io penso più alla mancanza di riguardi, impossibili con le loro case e le loro vesti, che alla mancanza di pulizia domestica e corporale, che mi è parsa abbastanza curata. I casi son quasi tutti mortali e perciò pochissimi sono gli Indiani che appariscano tarmati.
Ogni uomo ha uno spirito, che dopo morto va sotterra a unirsi ai suoi compagni, tra i quali gode di una considerazione proporzionata a quella goduta in terra tra gli abitanti della medesima tolderia. Questa credenza fa che tengano una speciale religione pei loro morti.
Benchè gli ahót sieno amanti di andare a zonzo, nondimeno dimorano nei pressi dove morirono i corpi che li contenevano.
Lo spirito della persona che muore fuori via a cui non sia data sepoltura nella propria terra, vaga solitario, sconsiderato e triste tra mezzo degli spiriti stranieri.
Io domandavo al mio Cicerone perchè fosse tanto crudele il fato per cotesti infelici, che senza loro colpa morivano ed avevano il corpo fuori della lor nazione. Ed egli a me: «L’essere i corpi lasciati fuori via abbandonati dai loro congiunti in vita e dai figli della stessa tribù, era segno che non avevano goduto amore e stima in vita, sicchè gli ahót stranieri al vedersi comparire tra loro uno straniero ragionavano così: questi qui, che, nè i congiunti in vita, nè i figli della stessa tribù in terra non onorano di sepoltura fraterna, è segno che non riscuotevano nè amore, nè stima, dunque non meritano niente» e lo lasciano solo. Ripeto il girigogolo del ladino.
Mi venne a mente la tradizione latina riportata in aurei versi nella Eneide, quando Enea disceso agli Elisi trovò l’ombre degli insepolti che errano intorno alla Palude Stigia senza poterla traghettare:
Quella turba che passa, è dei sepolti;
Questa che torna, è dei meschini estinti
Che ne tomba, nè lagrime, nè polve
Ebber morendo. A lor non è concesso
Traiettar queste ripe e questo fiume,
Se pria l’ossa non han seggio e coverchio,
Erran cent’anni vagolando intorno
A questi liti, e ’l desiato stagno
Visitando sovente, infin ch’al passo
Non sono ammessi.
E mi rammentai della venerazione che presso tutti i popoli si consacra alle tombe e della intolleranza che ne è conseguita presso alcune religioni barocche e crudeli.
Queste credenze sono la base delle cerimonie per guarire i malati e per dare sepoltura ai cadaveri.
Prima però di descriverle, devo far cenno anche di una specie di culto per alcuni astri, proprio specialmente delle donne: questi astri sono la luna e la stella della mattina.
Al sorgere della luna, le donne escono dai loro toldi e presesi per le mani formano un cerchio e si danno a girare intorno rapidamente, saltando e gridando in onore dell’astro d’argento.
Lo stesso fanno all’affacciarsi della stella, alla balza orientale, invocandola benigna alla raccolta dell’algarroba e delle altre frutte del campo.
Anche a mezzanotte sogliono sottrarsi al dolce riposo, e uomini e donne uniti saltare e gridare in cerchio a propiziarsi il cielo.
Negli ecclissi di sole o di luna, si riuniscono parimente a implorare la cessazione dell’inesplicato fenomeno, ma lì è un ahót che temono e che scongiurano.
Questi sono gli unici atti di adorazione che io sappia, i quali dinotano l’avviamento di questi selvaggi al sabeismo o religione degli astri: fa specie però che l’astro maggiore non figuri tra gli oggetti della loro adorazione o dei loro scongiuri. Solamente, mi affermava l’interprete Faustino, si uniscono a scongiurare la sua riapparizione quando resti tappato da nubi per molto tempo (cosa rarissima in quei paesi) o si stia armando la tormenta; ma anche allora scongiurano piuttosto l’ahót, che sottrae l’astro benefico ai loro sguardi e ai loro corpi ignudi.
Si vede dunque come anche tra questi Indiani sieno le donne quelle che stanno iniziando l’adorazione, e come elleno, conformi in ciò a quelle delle antiche nazioni pagane, abbiano trovato nella pallida luna l’elemento più consono alla loro condizione, e perciò più capace o più disposto alla loro protezione, mentre il sole troppo dissimile da esse, aspetti ancora l’adorazione dell’uomo, più tardo ai timori, alle speranze e alle preci.
Idoli non ne ho visti in nessuna parte, per quanto la curiosità mi facesse indagatore, e i miei Ciceroni mi hanno sempre negato di averne. Il loro animo però non vi sembra estraneo: e, esclusa da quella parziale adorazione di astri menzionata, è probabile che qualche oggetto naturale che si presenti con caratteri speciali, o di terrore, o di beneficenza, o di mistero, riscuota alcun chè, da assomigliarsi all’adorazione.
L’ingegnere Braly che ha viaggiato nel Ciacco presso il Rio Salado, mi afferma che i Mocoviti di là non abbandonano mai il luogo dove si trova l’aerolite caduto nel secolo scorso, che si annunziò con orrendo fragore e con luce abbagliante.
Ciò farebbe credibile l’affermazione di Azara, mi pare, secondo il quale i primi conquistatori del Paraguay, dicevano aver trovato tra i Guarany, che lo abitavano, l’adorazione di un grossissimo serpente chiuso in una gabbia: sarebbe stato una specie di serpente boa, qua chiamato ampalagua e che è rimarchevole si per la grandezza che per la mansuetudine.
Sono però poco disposto ad accogliere come vere le affermazioni di Garcilasso de la Vega, figlio di Inca, secondo il quale le popolazioni che furono conquistate dagli imperatori suoi avi, erano immerse nella più grossolana idolatria, sicchè elleno adoravano mostri immaginarii, animali i più schifosi e perfino piccoli oggetti inanimati. Garcilasso, pietosamente attaccato alla memoria ed anche alla tradizione dei suoi padri, benchè dissimulandolo, ambiva mostrare il compito civilizzatore dell’immenso impero or’ora sparito, e prestava facile orecchio alle leggende nazionali che gli facilitassero il suo intento: sebbene la grande nazione civilizzatrice degli Inca, propagatori della religione del Sole e della Luna, di cui si dicevano figli, non abbisognasse, per risaltare, di tali contrasti, tuttavia restava impressa nelle opere stupende della mano e dell’ingegno. Ma guai ai vinti! E l’ingiustizia degli Inca verso i popoli conquistati, fu loro fatta scontare ad usura dai nuovi conquistatori, che in nome del vero Dio, distrussero palagi, templi, opere pubbliche e istituzioni, seppellendole sotto lo spregio e l’anatema. Comunque sia, la vita errante delle tribù selvaggie del Ciacco sembra che debba escludere l’idolatria.
E come in fatti potrebbero le tribù erranti portarsi dietro gli orti che contenessero le cipolle degli Egizii? In ogni modo dovrebbero escludere le cose incomode per volume o per peso o per pericoli; come potrebbero tenere in venerazione Dei portati a cavalluccio in isconcie posizioni, o agguinzagliati e frustati perchè docili non strazino o non abbandonino l’orda? O come conservare il prestigio e il terrore del mistero negli sgomberi? E come potrebbe pensare ciascuno al proprio pane quotidiano durante la marcia, e allo scredito degli Dei e dei sacerdoti fatti prigionieri e distrutti a mezza strada dal nemico imboscato? Dovrebbe dunque l’idolatria applicarsi a oggetti piccoli e di poca cura; ma questi sono gli ultimi a colpire l’immaginazione e non si possono concepire che come frangia di una tela più grande, che come sfogo di capricci non sazii della volgarità dell’adorazione, come i santini intercessori ad uso e consumo del lusso delle case gentilizie.
Il fatto poi notorio della facilità con cui abbandonano gli Indiani la loro tribù, loro cacicche e i loro stregoni, e il nessunissimo prestigio di questi fuori della battaglia o del pericolo, confermano l’argomentazione precedente.
Note
- ↑ «Non lo so, signore: io non domando niente perchè gli Indiani son molto diffidenti.»
- ↑ Il destino sofferto dai prigionieri fatti durante la spedizione al Rio Negro con la quale, eseguita dopo scritte queste lince, dal general Rocca si sono conquistate alla Repubblica Argentina 15,000 leghe di territorio, dimostra l’aggiustatezza dei nostri giudizii, per quanto esso possa considerarsi inevitabile.
- ↑ L’acca nella parola ahót si dovrà pronunziare aspirata e nasale: è un suono molto frequente in questo idioma, e non manca in altri: ma di ciò a suo tempo.