Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/XV
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XV
GUERRA
A una guerra ne segue un’altra, per vendicarsi i vinti delle perdite sofferte, o per averci preso gusto i vincitori. Motivo d’una guerra è l’avere pescato, o cacciato, o spigolato nel territorio dell’altro, o l’avere da vendicare un’offesa, ovvero la speranza di bottino.
Non sono però guerre strategiche, in cui una battaglia segua un’altra fino a inabilitare il nemico alla difesa; sono sorprese, assalti alle tolderie per saccheggiarle di oggetti, di bestie e di ragazzi, talvolta anche di donne.
È perciò che, nelle regioni boscose, le tolderie hanno sempre ai fianchi e alle spalle boschi, dove si rifugiano i sorpresi, e per dove è impossibile inseguirli per esservi un laberinto di viottoli noto solamente agli abitanti di quella data tolderia.
Per riunirsi poi in un luogo comune, oltre gli indizii delle orme lasciate, usano quello di torcere o alcuni rami o alcuni ciuffi di erba nei crocicchi, per dare norma ai compagni istrutti dell’artificio convenuto anticipatamente.
Altro modo di avvisarsi sono i fuochi. Durante la nostra marcia pel Ciacco siamo stati sempre contornati di fuochi in maggiore o minore distanza, fuochi che assumono talvolta proporzione di immensi incendi. E tante volte, quando noi credevamo di essere stati nella più completa solitudine, ci avveniva all’arrivo presso qualche indiada di essere aspettati e di sentirci dir l’ordine tenuto nella nostra marcia.
Hanno però anche molte spie ed esploratori; in mattacco, le prime si chiamano niguaiecque e i secondi guéicáss.
Un embrione di ordinamento tattico, sembra lo abbiano: così hanno un cacicche generale, cacicchi semplici e capi di manipoli. In mattacco il primo si dice canníát tizán, i secondi canníat, gli ultimi ignoro.
I cacicchi generali sono eletti a secondo grado, cioè dai cacicchi semplici, e questi sono eletti dal popolo, il quale preferisce in generale i figli del defunto, se dessi sono adulti, valorosi e buoni. Del resto anche in queste elezioni si agitano le stesse passioni come tra noi.
Hanno anche un’altra categoria di persone, che chiamano njat: corrisponderebbe al 'caballero spagnuolo e al galantuomo italiano. Così, chiamano njat i Cristiani che lor sembrino di qualche categoria. È presumibile che un’analoga distinzione si trovi fra gli altri Indiani. Nel Perù, e dove si parla la lingua chicciua, chiamano viracoccia e ueracoccia i caballeros.
Eletto il cacicche generale, gli elettori vanno a visitarlo, quando possono, e tali visite si celebrano colle solite bibite e i soliti mangiari. Un cacicche generale abbraccia più tolderie, quasi sempre, e distanti tra loro. Il visitatore i Mattacchi lo chiamano tzi-ckiác. Queste autorità, presso gli Indiani del Ciacco hanno un valore quasi puramente militare: in pace perdono quasi ogni azione, se non è quella degli affari esteri, per la quale hanno la rappresentanza della tribù presso gli stranieri, sia per trattare un affare, come per combinare una guerra o una pace. Tuttavia nemmeno questa loro azione s’impone, e i gregarii, ciurma, son padroni di rifiutarsi perfino di andare alla guerra, benchè l’amor proprio rare volte permetta loro l’astinenza.
Quando un cacicche vuol dare un assalto, domanda il parere degli anziani e delle persone d’influenza, e se ne ha l’approvazione invita a seguirlo chi vuole.
A volte però combinano molto avanti qualche invasione, mettendosi d’accordo tra loro diversi cacicchi di varie tolderie. Quando noi arrivammo alla tolderia del Ciaguarál, vi trovammo 11 o 13 cacicchi riuniti, tutti Mattacchi, e aspettavano i Toba alleati, coi quali in fatti poco dopo invasero il territorio di altri Mattacchi, che tre mesi avanti avevano dato loro le briscole.
Quando si muovono per la guerra lanciano gridi di minaccia e di giubilo, e si tingono di nero parte della faccia e del corpo, e talvolta si arruffano ancor più gli arruffatissimi capelli, da parere anime in pena, secondo l’espressione d’un Indiano cristiano. Presso alla battaglia, si mettono, chi ne ha, penne al capo, alla cintola e anche alle noci dei piedi, preferibilmente di color rosso o giallo; se portano qualche cencio se lo fasciano alla cintola bene stretto, e all’atto della pugna escono in gridi di terrore.
Questo di pitturarsi per la guerra lo troviamo presso tutti i selvaggi e usava anche presso quelli che i Romani chiamavano Barbari; per esempio, secondo Claudiano, i Sicambri prima della pugna davano un color rosso vivo alla chioma.
I cacicchi hanno il posto d’onore nel più fiero della battaglia, che dà per risultato sempre la morte di alcuno di essi. Se vincono gli invasori, saccheggiano e rincorrono le donne, i ragazzi e le bestie, e ripartono dando alle fiamme la tolderia.
Non danno quartiere ai guerrieri, ed è raro che risparmino alla morte le donne adulte prigioniere, perchè ne temono, o come di spie, o come di avvezzamale i ragazzi portati via, e se son vecchie le sprezzano come esseri inutili. Ma le creature sotto ai 10 o 12 anni al più, le portano seco prigioniere, per allevarle come guerrieri o spose in benefizio della tribù.
Questo costume non ci ha da parere più barbaro di quello che al tempo dei Romani avevano gli Sciti, abitanti tra il Don e il Danubio, i quali accecavano i prigionieri per risparmiarsi la cura di guardarli in mezzo della loro vita nomade. E che potremo dire di esso, quando i Romani già divenuti cristiani gettavano i prigionieri nel circo agli strazii delle fiere e agli insulti del pubblicaccio? Sentite un complimento contenuto in un panegirico recitato da un Grande cristiano, a Costantino il Grande, il Vittorio Emanuele del Cristianesimo: «Tu col sangue dei Franchi rallegrasti la pompa dei nostri giuochi ci offristi il giocondo spettacolo d’innumerevoli prigionieri sbranati dalle belve; onde quei barbari spirando, erano dagli insulti dei vincitori offesi ancor più che dai denti delle fiere e dalle angoscie di morte.»
Fo questi ravvicinamenti per mettere in sodo che l’uomo si rassomiglia dappertutto e sempre.
Con questi mezzi spicciativi si risparmiano la vergogna e il pericolo della schiavitù, incompatibili del resto con la vita nomade che conducono, con le loro continue guerre, con la scarsezza anche dei viveri e finalmente col carattere indipendente proprio dell’Indiano, che preferirebbe ammazzare e farsi ammazzare, piuttosto che stare schiavo. Nondimeno considerate quale straordinaria influenza possa avere tal costume nella esistenza e nella distribuzione delle tribù, pensando che un succedersi di vittorie di una o più tribù collegate può presto produrre completa distruzione e disparizione di altre.
Chi ammazza un nemico, ne porta per trofeo, se ha tempo di levarla, la cotenna della testa, coi capelli, con gli orecchi e possibilmente con una falda della pelle di dietro del collo: questa cotenna l’adattano in forma di ciotola, con un giunco o un ramo flessibile, che legano e cuciono tutto all’intorno all’orlo della medesima, poi ancor sanguinosa la empiono di liquore e, acciuffatala pei capelli, la vuotano passandosela in giro e bevendo in onore del vincitore e a scherno dei vinti. Alle volte, presa la ciotola per l’orlo, ne fanno stillare il liquore giù pei capelli nelle loro fauci sottostanti.
Io ebbi una di queste capelliere già appartenente a un cacicche Toba, ucciso da un Mattacco amico, nella circostanza dell’effettuata invasione, che si stava preparando al Ciaguarál quando vi passammo noi. I bachi me l’hanno ridotta così, che ormai la butto via non essendo più decente da mandarsi in Italia con alcuni cranii ed altri oggetti da me raccolti.
Quest’uso di recidere la cotenna coi capelli lo hanno tutti questi Indiani qua, e lo hanno pure quelli del Nord-America. Ma, la cosa più curiosa, è che questo costume lo avevano anche gli Sciti.
I Germani poi avevano quello di bevere nei teschi dei guerrieri nemici uccisi. E chi non sa del longobardo Alboino che fece bere la sua moglie, la gepida Rosmunda, nel teschio del padre di lei mille trecento anni fa?
Quest’uso degli Indiani, mi rammenta una scena che dimostra, mi pare, la politica di questi selvaggi.
Una volta accompagnai il colonnello del reggimento, che guarnisce questa frontiera in una delle sue visite periodiche. Giunti a un forte, dove si trovava una tribù d’Indiani, venne a farci visita il figlio del cacicche generale, questi non venne perchè pretendeva che prima il colonnello fosse andato da lui! ma ci regalò dell’aloja che era buonissima. Siccome tornava da battersi coi Toba, noi gli domandammo se aveva riportato nessuna capelliera. E l’Indiano, per scusarsi della sua crudeltà rispose: «I Toba levano la cotenna ai Cristiani e noi ai Toba!»
In cotesta occasione, vedendo gli Indiani me vestito da borghese in mezzo a tanti militari e a lato del colonnello gentilissimo verso di me, dicevano tra loro:
«Chi sarà quello lì?»
E i più saccenti rispondevano:
«Sarà qualche presidente!»
E a me mi pareva al sentir queste chiacchiere d’essere in mezzo a una turba del nostro popolino.
È rito di guerra tra questi Indiani qua muoversi alle imprese con la luna nuova. Vi annettono, pare, una virtù superstiziosa; non costumano perciò marciar di notte per paura delle vipere e delle tigri.
A proposito di tal superstizione, una analoga la troviamo tra gli Spartani, e sappiamo di loro che nella guerra Meda (anno 491 avanti G. C.) essi non soccorsero in tempo gli Ateniesie i Plateesi, che, duce Milziade, combatterono e vinsero la famosa battaglia di Maratona contro Dario re dei Persiani; causa del ritardo fu l’aspettare il plenilunio, che li fece arrivare il giorno dopo la battaglia.
Già sappiamo che le armi sono l’arco colla freccia, la lancia e la clava, tutte di legno: non usano metalli per non averne, e per non saperli, nè poterli lavorare. Se hanno qualche chiodo, o qualche coltello, o qualche latta di scatole, ne fanno gran conto. Usano anche las boleadoras, specie di fionda.
La guerra la portano lontano centinaia di leghe, fatte tutte a piedi, e presto relativamente. Perchè gl’Indiani sono camminatori stupendi. Nudi, e quindi leggieri come sono, e assuefatti, vanno lesti senza parere: sono scalzi, quindi hanno anche meno bisogno di alzare i piedi.
Non mancano i capi di arringare i loro guerrieri prima della pugna, e già presso a lanciarsi grida loro il capitano: «Compagni già ci siamo: battetevi con coraggio: non scappate anche se il nemico vi pesta i piedi!» frase che mi pare tanto energica e tanto vera, trattandosi di combattimento a corpo a corpo.
Il cadavere del nemico lo straziano facilmente; ed oltre a recidergli la capelliera, gli strappano il cuore, gli mutilano i membri e infieriscono in mille guise.
Ignoro se lo strazio preceda la morte del prigioniero, oppure se si contentano con sgozzarlo a uso pecora prima di straziarlo. Col nostro ladino Faustino fecero così: prima gli tirarono di sorpresa delle frecciate con cui lo stesero al suolo inetto alla difesa; allora gli furono addosso e lo scannarono ancora in sè poi gli recisero la testa, lo appesero pei piedi a un albero e se ne andarono spogliandolo di tutto quanto portava addosso.
Ecco un dialogo tra que Indiani, dopo un combattimento:
1° Indiano. — Ora ti racconterò quello che ci è accaduto al nostro ritorno. A un tratto mi sento gridare di dietro: «I nemici stanno ammazzando i nostri compagni laggiù in fondo della via.»
— Allora grido ai miei: «Fermatevi! stanno ammazzando i nostri Non fuggite, fate fronte anche se il nemico vi pesta i piedi!…»
2° Indiano. — Oh come mi ci sarei ritrovato volentieri! Il male è che non vi ho visto quando siete partiti!…
1° Indiano. — Tu vedessi! Ci siamo messi colle lance e colle mazze, e poi gliene abbiamo ammazzati dimolti. Oh! ci siamo vendicati. Ora si che son contento: siamo rimasti pari. A chi gli abbiamo levato la capelliera; a chi tagliato le mani; ad altri abbiamo strappato il cuore e ad alcuno mutilato le membra…; a molti abbiamo reciso la testa…
E così di seguito descrivendo minuziosamente tutte le prodezze fatte.
Alle membra di un nemico devono attribuire qualche virtù. Mi rammento d’una volta, che avevo portato meco tre teschi di Mattacchi, tolti dove quattro anni fa ne furono trucidati una quarantina, dopo averli fatti prigionieri; di tutti cotesti le piene ne avevan fatti rimaner solo quelli che io giunsi a dissotterrare. Cotesti teschi li portai da dieci leghe al mio rancho sulla frontiera, e li misi in camera sotto il tavolino che mi serviva di scrittoio.
Una notte temporalesca, odo un rumore sulla porta aperta: la poca luce della candela di sego era sufficiente ad abbagliarmi, non potevo perciò vedere nel fondo cupissimo dell’aria un coso nero: Quien es? grido, naturalmente acciuffando il revolver li sul tavolino. Amicco… amicco… no mas, (Amico, amico e nient’altro), e si avanza un pezzo d’uomo di cacicche mattacco seguito da un compagno. Que queriendo, amigo? (che volendo, amico), gli soggiungo allora: Toba etéc (la testa del Toba) mi risponde. Io piglio un cranio e glielo porgo, aggiungendo: Toba cátcía (Toba cattivo). E allora l’Indiano afferra, quasi convulso, il teschio, con la sinistra, colla destra si mette a cacciare le dita negli occhi, nelle orecchie e nella bocca dello scheletro e poi via via nella bocca propria come succhiandole, e contemporaneamente a saltare e a gridare suoni inarticolati.
Cotesto cacicche aveva saputo di cotesti teschi, ma però come già appartenenti ai Toba loro mortali nemici, ed era venuto in una notte a proposito a celebrare la ridda.
Da cotesta volta, essendosi data la combinazione che le indiade mattacche tornavano dagli stabilimenti di zucchero della provincia di Salta, situati a un sessanta leghe più addentro di dove era io, tutti i giorni mi trovai per qualche tempo con delle cinquantine d’Indiani alla porta, che mi domandavano la testa del Toba; ed io li compiacevo coll’eterno ritornello: Toba cátcía… cátcía… e quelli a ripetere la solita storia.