Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/VIII

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VIII

ALLA CANGAGLIÉ - A CACCIA UNA TOLDERIA



RR
itorniamo sui nostri passi.

Siamo rimasti dove trovammo Faustino e diverse nazioni indiane. Cotesto punto si chiama la Cangaglié ed è marcato in tutte le mappe; ed è anche storico, perchè costì e un quindici leghe più in su furono impiantate nel secolo scorso due missioni, che furono poco dopo distrutte dagli Indiani. Ne riparleremo.

Erano tanti giorni che non scendevamo dal vaporino per la paura d’essere fatti salciccia, intanto non ci parve vero di approfittare d’un’occasione, che sembrava sicura, per pestare un po’ di terra e vedere un poco di campo. Ci dissero poi che li presso era una laguna, allora ci determinammo a fare una specie di partita di caccia.

Scendemmo io e il signor Natalio Roldan, il ladino Faustino, un uomo e tre Indiani. Entrammo per dei piccoli sentieri, che sono le strade maestre degli indigeni; in certi punti eravamo circondati da erbe tanto alte che ci seppellivano, in altri ci trovavamo in campo pulito, per recente bruciatura del fieno, e allora la vista spaziava in vasto orizzonte. Ogni piccolezza [p. 64 modifica]pareva dovesse dirci qualche grande cosa e richiamare la nostra attenzione, ma intanto la laguna non si vedeva.

A mezza via s’intoppò in uno zuccaio selvatico, che sono frequenti nel Ciacco: lì presso eravi un madrechón, cioè un pezzo di letto del fiume, tagliato fuori anni avanti da una di quelle piene che a volte spostano il fiume di leghe e leghe; in questo luogo c’imbattemmo anche in una indiada Toba.

Oh! finalmente vedremo delle donne da vicino!... come saranno?

Intanto i tre Indiani nostri tremavano: «Tooba» dicevano, e mostravano di tornarsene indietro. Ma noi invece stabilimmo di aspettarli. Tornavano da pescare nel madrechón.

Precedevano le donne. Che delusione! Vecchie, mencie, grinzose, il petto rinfrinzellato come un fico secco; occhi biechi, cisposi, verdognoli, semispenti; con qualche cencio per foglia di fico; e poi cariche di borse a rete piene zeppe di pesce; puzzolenti perciò, e sudicie, pareva, o almeno imbrattate di fango. Erano in marcia per la tolderia. Le borse e qualunque altro carico lo portavano secondo l’uso generale, dietro le spalle raccomandato alla fronte con una corda, che cinge la fronte stessa e il carico; parevano bestie da soma.

Le donne passarono oltre frettolose, o almeno diritte come fusi. Sopraggiunsero gli uomini con arco, freccie e lancia: armi che non abbandonano mai, unitamente alla clava, che è una mazza di legno durissimo e pesante, grossa e terminata da una capocchia più o meno voluminosa, che ai Mattacchi la fa chiamare é-téc-tác, parola che io in sul principio ammiravo come prodotto felicissimo di armonia imitativa del cozzo di due legni duri, ma che poi ho trovato essere un traslato razionale dovuto alla forma dell’arme, significando in fatti testone. L’arco e le frecce le portano in una mano: non hanno farètra, nè cosa che le somigli, per portare le frecce.

Si soffermarono un poco: scambiarono alcune articolazioni, poi venendosi ad aggruppare intorno a noi un numero mag[p. 65 modifica]giore e guardandoci torvi, determinammo proseguire per la laguna, che incontrammo a tre chilometri dal vaporino.

La laguna era piuttosto un padule pieno di giunchi, cannuccie e piante acquatiche: il fondo fangoso. Di queste lagune ve ne sono molte, ma tutte dentro una certa zona, che in altra occasione chiamai di oscillazione del fiume; sono pezzi di letto del fiume tagliati fuori nelle piene, e che col succedersi degli anni, sono andati riempiendosi fino a divenire bassi fondi, in cui stagna l’acqua delle piene e delle pioggie.

Nel loro principio sono chiamati madrechóni, che hanno la profondità del fiume. Lagune e madrechóni, parte si seccano e parte no, e forniscono località opportune alla pesca, alle cui rive per ciò fanno tappa gli Indiani nella loro marcia nomade.

Dopo poca caccia di uccelli palustri dovemmo tornarcene per l’ora tarda e pel consiglio dei tre Mattacchi che ci accompagnavano. Essi, benchè amici dei Toba, ne avevano una paura che mai: perchè sono amici spurii, per necessità, e ai Toba non garba la loro relazione coi Cristiani.

Io era ansioso di sapere qualche parola toba, e lì mi pareva la migliore occasione. Perciò una mattina a bordo mi procurai un Indiano che sapesse toba e mattacco, e col mezzo di Faustino, che sapeva mattacco e castigliano, mi posi ad appuntare. Alle prime parole un cacicche mattacco che se ne accorse venne e si mise a rimproverare i miei maestri, e si piantò dinanzi a udirci; dopo poche altre parole dovei smettere la lezione, perchè ormai diffidavo della sincerità degli interpetri; non potei più riprenderla. Il cacicche obbediva ad ingiunzioni tobane.

Il giorno dopo, coll’aiuto di Faustino, fu pensato a mettere insieme una spedizione per mandare a chiedere soccorso di viveri e di uomini a Rivadavia, paesello presso la frontiera distante un 500 chilometri da dove eramo. Tre uomini dell’equipaggio risoluti e bene armati, provvisti di un cavallo e di pochi viveri, dovevano da Faustino essere guidati fino oltre [p. 66 modifica]il confine del territorio minacciato dai Toba, ed ivi raccomandati al cacicche Pailó suo amico, che doveva dar loro guide fino alla frontiera; dopo tre giorni la spedizione potè partire.

Fra cotesti Mattacchi va famoso il cacicche che noi chiamiamo Mulatto. Nell’ultima guerra si diceva di lui che da solo aveva sostenuto un combattimento contro tre nemici e li aveva vinti. Poco avanti, essendo pel bosco s’era trovato testa a testa con un tigre; egli era giunto a schivare il suo assalto e afferrarne le due zampe davanti, sostenendosi così sulla difesa, finchè la moglie di lui sopraggiunta assestò per di dietro un colpo di mazza sulla fiera, che cadde tramortita al suolo.

Di queste tigri ve ne sono molte per là e feroci. Presso la laguna dove cacciammo, una tigre poco avanti si era slanciata sopra un povero Indiano muto, mentre questi stava chinato a raccorre legna, e dopo averlo orribilmente malconcio lo avrebbe finito, se i compagni sopraggiunti al rumore non avessero messo in fuga la fiera.

Le tigri sono nel Ciacco uno dei più seri pericoli degli Indiani e dei Cristiani: pei primi più ancora, per mancanza o scarsezza di armi da fuoco. Nelle estancias sono un flagello del bestiame; nel Ciacco cristiano sono molti i cacciatori di tigri, che allevano cani a proposito.

Nella caccia del tigre, si usa, una volta scovato, perseguitarlo a cavallo e coi cani, finchè la fiera, o si arresta facendo testa a piè d’un albero o dentro un folto cespuglio, o si arrampica sopra una pianta. La carabina prima, ma più spesso la lancia e il pugnale finiscono il combattimento.

Il tigre, accorto, aspetta lo sparo della bocca da fuoco, e se non cade morto, allora si slancia contro il nemico e guai! Durante la mia permanenza qua, due famosi tigreri sono stati morti, maciulla ta la testa dalle zanne della belva inferocita. Tal fiata salta sulla groppa del cavallo: un pugnale affilato e un sangue freddo estremo, uniti a forza erculea, possono [p. 67 modifica]unicamente salvare allora il cacciatore. Ed è cacciatore ogni padrone di estancia.

Un certo signor Diaz, che vive sulla frontiera presso il Teuco, poco fa aveva ucciso il quattordicesimo tigre che appunto gli aveva fatto tal giuoco. Altro estanciero, certo signor Celestino Rodriguez, bel pezzo d’uomo, anziano, aveva il naso con profonda cicatrice d’una ferita dell’artiglio d’un tigre con cui s’era battuto testa a testa, a piedi. Bisognava vederlo quando rifaceva l’atto della pugnalata con cui aveva sbranato il ventre della fiera già ferita e allora ritta dinanzi a lui trattenuta in distanza dal suo braccio atletico già tutto straziato!

Un cuoio di tigre, ammazzato a poca distanza da me, misurava fresco nove palmi, ossia circa due metri dall’attaccatura della coda a quella del capo! Cebado, ossia già nutrito di carne umana, il tigre assalta spontaneo.

In verità, nè per ferocia, nè per grandezza e nè anche per bellezza di manto, il tigre del Ciacco non la cede a quello d’Africa!

Giungemmo presso una tolderia mattacca: era tanto il desiderio di vedere la vita domestica degli Indiani, che ci determinammo a fare a piedi la distanza che ce ne separava pel fiume. A una lega di cammino così, giungemmo dove un bosco costeggia la ripa a picco: lì, nel più aspro del transito, era aperto un sentiero, che ne condusse fino ai toldi con la guida di un Indiano.

Prima di arrivarvi, udivamo i colpi delle scuri che atterravano piante, e il gridio delle cine ossia delle loro donne, e dei ragazzi che cantavano e facevano il chiasso. V’assicuro che il nostro animo si trovava impressionato ai rumori d’una vita che ancora ignoravamo e che scaturivano di tramezzo a una «selva selvaggia ed aspra e forte». Noi eravamo cinque.

Al nostro sboccare nel mezzo a loro fu un tumulto generale; chi corse ad afferrare le armi, chi a nascondersi nelle [p. 68 modifica]capanne, chi scappò nel bosco, «Ciguéle, Ciguéle» gridando, così chiamano i Cristiani. Ma la presenza della guida, che era uno dei loro, li rassicurò, e allora vennero, formandoci circolo gli uomini e formando crocchi a parte le donne.

Avevamo portato tabacco, pezzuole e gingilli, per regalarli in parte, ma soprattutto per ottenere pecore e galline. Ci riuscì molto difficoltoso ottenerne un due o tre, perchè ne avevano pochissime, e perchè ci mancava il ladino. Faustino il nostro interpetre si era allontanato per far giungere un espresso alla frontiera, distante ancora 100 leghe, col quale chiedevamo aiuti di provvisioni, di cavalli e di scorta per fare la travesia del Ciacco per terra.

Io sfogliavo il mio scartafaccio, dove avevo appuntato le lezioni di Faustino, ma anche se potevo far capire qualche parola mia a loro, non arrivavo a farne capire qualcuna di loro a me. Ci trattenemmo un par d’ore.

Cotesta tolderia aveva bosco ai tre lati, e campo aperto al quarto, e aveva il fiume a un mezzo chilometro. È uso, che risponde a uno scopo di sicurezza, piantare le tolderie a ridosso d’un bosco, per trovare ivi scampo in caso d’assalto improvviso per parte dei nemici, che ignorano l’andirivieni dei sentieri praticati nella foresta; e in prossimità di una massa d’acqua per aver vicina la pesca, e l’acqua sia per bere, sia per bagnarsi.

A proposito di bagnarsi, si suol dire che questi Indiani qua sono molto sudici: eppure io ne dubito fortemente; durante l’estate io li ho visti per gusto cacciarsi nell’acqua in certe ore fisse del giorno in gran numero, così gli uomini come le donne, ciascun sesso a parte: ciò rivelerebbe un costume più che un capriccio; poi sono spesso nell’acqua per pescare. Sicuro, paiono sudici, prima di tutto pel colore e poi per le sgraffiature che ormano crosta, e per le scottature del sole, che fanno arricciare la pelle bruciata, specialmente sulle spalle; e infine andando scalzi e nudi nel fango, tra mille erbacce e [p. 69 modifica]dentro boschi, e giacendo sul suolo, naturalmente si imbrattano, come s’imbratta chiunque di noi che si lavi mille volte al giorno e mille volte torni dove c’è da insudiciarsi; ma loja, scusate il termine, non ne hanno, ed io affermo che non sono sudici per costume.

Una tolderia risulta di un maggiore o minor numero di capanne, fatte di frustoni piantati in terra inferiormente e allacciati in forma di volta superiormente. Sopra questa armatura gettano paglia in abbondanza, da farla parere non una capanna, ma un carro ricolmo di fieno fino ad averne tappate le ruote. La paglia la lanciano da una certa distanza e con tanta accertatezza che fa maraviglia, tanto più che sono le cine, le quali fanno questo lavoro. Un toldo acquista, finito che sia, tal resistenza, da potervi stare e bilanciarvisi sopra un uomo; e non lascia passar l’acqua.

Ogni cacicche ha a parte il suo gruppo di toldi, come tanti quartieri, e a volte sono molti i cacicchi, specialmente quando si riuniscono per motivo di portar guerra altrove.

I toldi, in generale, sono molto bassi da non potervi star dentro in piedi, ma sono di diversa lunghezza secondo la estensione della famiglia o il numero delle famiglie parenti che vi si riuniscono. I toldi lunghi, in generale, sono un poco curvi, ed hanno due o più porte, cioè aperture per l’ingresso, quasi sempre munite da un lato, quello del vento, di una aletta fissa come paravento; bisogna chinarsi per entrare.

Si distinguono diverse parti in un toldo; cioè, le cucine, e le porzioni dove dormono alternativamente e siedono, lavorano, ecc. ma non son divise tra loro materialmente.

La cucina non è che uno spazio pulito dove accendono il fuoco, e solo l’usano quando è freddo o in caso di lutto della massaia, che per un anno non esce fuori, nè si fa vedere, nè parla, che nelle occasioni strettissimamente necessarie; pel solito cuociono le loro vivande fuori dinanzi alle porte. Le cucine son tante quante le famiglie. [p. 70 modifica] La camera è lo spazio dove tengono stese le pelli e i loro cenci, se ne hanno, per sdraiarvisi, salvo poi a metterseli in dosso quando escono, se freddo; al capezzale, dirò, e ai piedi, appendono alle pareti i loro oggetti, come le borse, le reti ecc. e parte delle loro armi. Alcune volte rizzano quattro forconcini d’un palmo d’altezza da terra alle quattro cantonate del letto, vi mettono attraverso due pali e su questi posano tante verghe pel lungo da formare come un canniccio, su cui stendono le pelli o la roba. Tal letto lo usano specialmente nell’estate per tenerlo più fresco e per liberarsi dagli insetti e rettili velenosi. Fra i Cristiani s’usa un identico costume, con forconi, invece di forconcini, alti fino a un metro e mezzo e due, per liberarsi dalle tigri. Io ho dormito su tutti cotesti letti e v’assicuro che è tutta questione d’assuefarcisi; nondimeno si dorme molto meglio in terra. Quando sloggiano, gli Indiani bruciano le loro capanne.

64 In mattacco capanna o casa si dice in due modi: háuét e hépp (si pronunzi la h come nel tedesco haus, ovvero come la c fiorentina): ora hépp vuol dire anche fumo, vapore e nebbia, ed anche una paglia che da lungi pare veramente una nebbia; e hépp chiamano pure il vapore bastimento. Ora scusate, o non ci vedete completa l’analogia del giudizio tra questo modo mattacco e il modo nostro di chiamare fuoco e focolare la famiglia o la casa, e vapore il bastimento a vapore? Eccovi dunque un altro ravvicinamento tra la mente dell’uomo mattacco e quella dell’uomo ariano.

Una tolderia la chiamano hép-péi, plurale di hépp; e «andiamo ad assaltare la tolderia» è uno dei loro gridi di guerra, che suona: huua kel-la hép-péi, pronunziando quel k così energicamente, che riassume una vera armonia imitativa.

A proposito di plurale, dovete sapere che questi Mattacchi hanno diverse declinazioni di nomi e tutte a flessione, mentre i Guarany, i Chicciua e i Cileni le hanno ad agglutinazione, cioè con aggiungere al singolare una particella espressiva il con[p. 71 modifica]cetto plurale. Certo che i Chicciua erano più civili dei Mattacchi e così i Guarany, se dobbiamo giudicarlo dai loro fratelli i Ciriguani.

Ora, se voi sentite i filologi pare che le lingue a flessione rappresentino lo stadio più avanzato del linguaggio, fatto che risponderebbe a una civiltà più avanzata. Nel nostro caso dunque abbiamo una patente e luminosa contradizione con cotesta teoria. Diffidate adunque delle teorie assolute in filologia per adesso e per molto tempo ancora, finchè lo studio delle lingue indiane del vecchio e nuovo continente, non sia molto meno imperfetto di quel che è adesso, e non sia uscito dalle mani dei fanatici e dei sistematici.

Dinanzi alla porta della casa piantano ritta la lancia e a un lato appoggiano l’arco e le frecce; cosa che dà una certa aria bellica che piace. Le case non sono messe allineate geometricamente, nondimeno aspirano a lasciare tra una fila e un altra di case un largo spazio come strade.

È un gusto vedere i loro fuochi quando cucinano. Vi sono li sopra pentole di coccio, che contengono radici e frutte silvestri diverse, le quali in generale necessitano diverse acque. Tra coteste è buono e attraente una specie di fagiuolo e una specie di tra batata e patata. Le pentole se le fanno e se le cuociono da sè, lavorandovi con diligenza le cine. E quando è sull’ora di mangiare, che suole essere nelle tolderie alle 11 antimeridiane e all’avemaria della sera, compariscono stidionate di pesci, che sfrigolano e fumano e colano da destare il maggiore appetito. Molte volte arricchisce la mensa qualche pezzo di carne di selvaggina o qualche topo, tutte cose ricchissime, benchè la mancanza di sale comprometta moltissimo il successo culinario pel palato di chi vi è accostumato fin dal fonte dell’acqua lustrale.

Agli Indiani piace che il Cristiano sia affabile con loro e non sdegni le loro cose. Io dunque in cotesta tolderia, dopo famigliarizzatomi, andavo assaggiando di qua e di là le loro pie[p. 72 modifica]tanze, e quelli a ridere proprio di cuore, ed io andava ripetendo: hiss, hiss, che vuol dire buono, buono. Ma bisogna mangiare con la forchetta che ci diè natura, fuorchè il brodo, che si prende col guscio d’una grande ostrica, che è abbondante nelle loro molte lagune.

Dove però corsi rischio di compromettermi fu al dover bere in una zuccaccia a un bucaccio, che aveva l’orlo tutto loja! Ma chiusi gli occhi, e, dopo pochi istanti, mi risvegliai glorioso e trionfante.

Cotesta volta, al partirci vollero vedere la scarica dei fucili, e noi per contentarli tirammo all’aria due o tre colpi. Bisognava sentire il gridio di quelle cine e vedere la baruffa di quei ragazzi per raccogliere i buccioli dei tiri a retrocarica! Come si somiglia l’animale uomo in tutti gli stadii di civiltà e di età!

Mi scordavo di dirvi che la larghezza dei toldi non suole essere mai maggiore della lunghezza d’un letto.