Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/IX
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IX
LE CINE
A veder poi cotesta coppia, nove decimi ignuda, assisa sopra un banco tra i cilindri ei pistoni della macchina, immobile per ore, ne richiamava proprio alla scena del Paradiso terrestre.
Le cine, in mezzo agli stranieri sono mute e impassibili, ma tra di loro sono chiassose e giocose come fanciulli. E questo è in generale il caratte dell’Indiano.
Una posizione curiosa nella cina è quella delle mani quando sta ritta. Non potendo metterle in nessuna tasca, nè farle gingillare con qualche ventaglio o che so io, se le cacciano sopra le mammelle, che fanno così il servizio di mensole alle braccia sovrapposte e riunite.
Parrebbe che un tal costume dovesse allungarle molto, ma non è così. Le mammelle sono larghe sì, ma basse e rette finchè giovani; e dopo expertae virum e allattata qualche creatura si aggrinsiscono e rattrappiscono di un modo veramente antiestetico. E notate che invecchiano presto qua, donne e uomini, e muoiono presto, e si deve attribuire a questo la mancanza in generale di capellature canute, benchè vi sieno faccie e corpi incartapecoriti così, che parrebbero di persone vecchie quanto Matusalemme.
Ho notato questa circostanza del petto perchè si sa che in altre regioni, secondo quanto si dice, le donne quando allattano scaraventano addirittura per dietro il capezzolo alla creatura portata in ispalla! Qua di certo non è così.
Le donne hanno il capello, come gli uomini, abbondante, crinoso e liscio; lo portano discretamente lungo, ma non lunghissimo, in parte perchè glielo accorcia l’arruffatura, la quale lor serve anche per difendere gli occhi e la fronte dal sole, in parte perchè se lo tagliano.
La tagliatura sia dei capelli che della barba, se la fanno colle mascelle di un pesce detto palometa, le quali portano denti acutissimi, che sembrano disposti in doppia fila, e che si intercalano rispettivamente gli inferiori con i superiori.
La palometa, la raya e il yacaré sono lo spavento di coloro che si bagnano in questo fiume e nelle lagune e madrechoni che ne dipendono. La palometa azzanna e stacca pezzi di carne, e può conciare pel di delle feste, come fu fatto a quel frate troppo lussurioso del Ricciardetto; un pesce ovoidale e stiacciato che sta ritto sul filo; la raya o razza è circolare e chiatta, ed ha tre punte alla coda, delle quali la centrale punge e ferisce dolorosamente e pericolosissimamente, quando l’animale pestato rovescia la coda e dà una frecciata: ve ne sono di più d’un metro di diametro; sta nel quieto e basso delle acque e perciò presso la riva: sembra vivipara. Il yacaré, specie di coccodrillo, ammorsa furtivamente una gamba o un braccio del disgraziato bagnante, e lo trascina nel fondo delle onde e se lo divora.
I bagni perciò tanto necessarii per nostro refrigerio nei soffocanti calori, erano sempre scombussolati dalla presenza di cotesti antropocidi.
La cina, se maritata, è fedele al marito per affetto, per educazione e per paura. Si raccontano vendette atroci dei mariti, che hanno diritto di vita e di morte sulle mogli infedeli. Se sono ragazze possono, e sogliono essere liberali. Non vi è dubbio che i Cristiani riscuotono le loro simpatie, se non vi è tramezzo il pregiudizio di stirpe; poichè il più povero Cristiano è sempre in grado di far regali maggiori del più ricco cacicche.
Piacciono a queste donne gli ornamenti ed il vestirsi, ma gli abiti non si adattano a portarli a gonnella e corsetto; invece se li avvolgono alla persona dalla vita in giù e li sorreggono e stringono con una fascia o fune che viene tappata da una grande piega. Poi sanno disporli sì bene, che fanno rilevare le belle forme senza impedirsi l’incesso spedito, cosa che non parrebbe a prima vista. Gli abiti consistono in coperte, e quando ne hanno se li mettono tutti addosso, sia d’inverno sia d’estate, un po’ per la loro vita nomade, un po’ per il loro gusto, perchè son gente stagionata, e pare davvero che per loro si verifichi l’adagio che «quel che para il freddo para il caldo».
Uomini e donne sono amici dei colori vivaci, specialmente del rosso, e della varietà. Nondimeno della tela bianca ne fanno un gran caso; le Ciriguane portano la cappa bianca, ma esse vivono più verso l’equatore, come ho già detto. Quando portano qualche cosa sulle spalle, lasciano quasi sempre un braccio scoperto. Amano le camicie all’uso nostro.
Da se formano gli ornamenti di cuoio e di gusci d’ostriche, spezzettati, in forma di una pretesa eleganza più o meno grossolana; una specie di braccialetto di cuoio lo tengono da giovanette, finchè lo regalano, si dice, al primo raccoglitore di loro carezze. Le camicie le fanno di spago, a maglia doppia, fitta fitta, ma elastica; paiono cotte; son senza maniche, sono adornate variamente di pezzetti di gusci d’ostrica e servono soprattutto nei combattimenti e contro le spine dei boschi; di queste camice ne hanno poche.
Altri ornamenti sono di piume, soprattutto di struzzo; ne adornano la fronte, la vita, le spalle, i polsi e le noci dei piedi. Tali ornamenti li adoperano specialmente gli uomini nelle battaglie, nelle feste e quando curano gli ammalati come vi dirò.
Da sè fanno anche alcuni tessuti di lana tratta dalle poche pecore che posseggono, e disposta con i colori naturali in forme regolari o di striscie o di quadrati. Disegno d’ornato non ne sanno.
Per tessere, piantano quattro picchetti a quattro angoli, vi attraversano dei pali su cui stirano i fili della orditura, e riempiono questa coll’aiuto di una stecca di un palmo, colla quale pure comprimono la trama; non conoscono la spola.
Chiamano potzin il tessere, noccalei il telaio e huolei i fili. Queste parole, che non hanno alcuna affinità con altre parole castigliane, ci assicurano che tale arte ha avuto origine fra loro.
Non perchè si debba affidarci troppo alla somiglianza o no delle parole per emettere giudizi di tal genere, poichè già dissi, come i Mattacchi cerchino sempre di non includere parole straniere per esprimere cose nuove, ma adattarvi altre loro con qualche modificazione; ma perchè qui non siamo nel caso di uno di cotesti artifizii. Altro motivo di equivocarsi potrebbe essere in alcune parole la impossibilità in essi di pronunziarle a nostro modo, e l’uso di darvi inoltre la forma propria alla indole della loro lingua.
Per esempio, i Mattacchi non pronunziano la r; altri Indiani come i Mocoviti, la pronunziano con la gorgia alla francese; oltre a ciò non sanno unire la b alla d, e pronunziare per esempio Pablo (Paolo).
Le alterazioni che ne susseguono sono stranissime. Così, qua c’è un cacicche generale che si chiama Peiló. Io mi sforzavo di capire che volesse dire tale nome, perchè gli Indiani sogliono chiamarsi a una certa età con nomi di animali e di piante. Inoltre non ha molto sapore mattacco questo Peiló. Or bene, Peiló vuol dire Pedro (Pietro) ed è Pedro, nome datogli dai Cristiani chi sa quando e ripetuto dagli Indiani per farcelo riconoscere. Per questi stessi motivi Pablo essi lo direbbero Pailó; come per dire cabra, capra, dicono cailá, intendendo così di riprodurre genuino il nome straniero!
Lezione evidente a chi studia la parentela delle diverse lingue nella somiglianza apparente dei molti suoni e delle lettere scritte.
Tutto ciò che è caricare pesi, fare i toldi, far pentole, cucinare, tessere, cercar radici, è ufficio delle donne, a cui pure appartiene far le reti. La caccia, la pesca, il far armi, la battaglia, tocca agli uomini; melear, cioè cercar miele nei boschi, dove ce n’è moltissimo, e raccoglier le frutta, è uffizio comune. Io suppongo, che questa faccenda in comune avvenga pel motivo, che tali raccolte, dovendosi fare dentro il tempo determinato della loro maturità, vorranno perciò rendere utili a tempo tutte le braccia per accumularne in maggior quantità.
Per far le reti, fanno naturalmente avanti lo spago, che chiamano nignhiói; la materia tessile la ottengono da una bromeliacea che in chicciua si chiama ciguar, nome usato ora anche dai Cristiani, e in mattacco húié. Le foglie di cotesta pianta le pongono a macerare per un poco di tempo, poi con un guscio d’ostrica le pettinano. Fatta questa faccenda le pongono a seccare e imbiancare al sole, e infine ne arricciano il tiglio tenendo colla sinistra la mannella e colla destra frullandolo su una gamba, sulla quale per non lacerarsela, mettono un poco di polvere di gesso, che essi chiamano maccotác-muc, gesso-polvere.
Fatto in questa maniera lo spago, ne fanno, oltrechè reti, anche funicelle, le quali chiamano nignhioi-léss, che vuol dire famiglia o unione di fili.
Per le armi vi sono alcuni specialmente abili, che le fanno e le cambiano con altri oggetti presso i loro compagni. Impiegano essi legni durissimi e pesantissimi, e tendini di struzzo o striscie di cuoio per le corde degli archi. L’asta della freccia è di canna, la punta è di legno duro, spesso coperta di osso e munita di una serie di tacche, che lasciano delle alette come quelle degli ami.