Osservazioni sulla morale cattolica/Capitolo X
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CAPITOLO DECIMO
Je ne parlerai point du scandaleux trafic des indulgences, et du prix honteux que le pénitent payoit pour obtenir l’absolution du prêtre; le concile de Trente prit à tâche d’en diminuer l’abus: cependant encore aujourd’hui le prêtre vit des péchès du peuple et de ses terreurs; le pécheur moribond prodigue, pour payer des messes et des rosaires, l’argent qu’il a souvent rassemblé par des voies iniques; il appaise au prix de l’or sa conscience, et il établit aux yeux du vulgaire sa réputation de piété. Pag. 416-417.
Ammettiamo per ora il fatto (sul quale però ragioneremo in seguito), ammettiamolo riguardo al tempo presente, e all’Italia; giacchè estenderlo a tutti i tempi e a tutti i luoghi, sarebbe dire che la religione di Gesù Cristo non ha portato in terra, che un aumento di perversità e di superstizione: proposizione che sarebbe ancor più assurda che empia. E sarebbe oltrepassare la tesi dell’illustre autore, che vuol parlare degli effetti della religione cattolica solamente in Italia. Ammesso dunque per ora il fatto, supponiamo, affine di cavarne un resultato utile, e non un argomento di declamazione, che si desse a un uomo l’incarico di proporre i rimedi per un così tristo stato di cose.
Quali ricerche dovrà fare quest’uomo? La prima sarà senza dubbio d’informarsi se questa costumanza venga da una legge, o sia un abuso. So che questa distinzione è ricantata: ma bisogna pure riproporla ogni volta che è il mezzo di non fare di due questioni una sola, che è come cambiar due strade in un laberinto. Se si dirà che è effetto d’una legge, si dovrà allegarla: assunto impossibile e riconosciuto implicitamente falso dall’autore, il quale, rimproverando questa condotta all’Italia, in confronto con la Francia e con la Germania, viene a concedere che si può esser cattolici senza tenerla, che dunque non è fondata su una legge. Se si dirà che è un abuso, allora l’uomo che abbiamo supposto non dovrà più cavarne conseguenze contro la legge, ma cercare il vizio nella trasgressione di essa; e la discussione muta affatto specie. Dovrà cercare quali siano gli ostacoli che impediscono l’effetto naturale della legge, e quali i mezzi per farla eseguire. Ammesso dunque il fatto, ne resulterebbe che quest’inconveniente esiste in Italia, perchè gl’Italiani non sono abbastanza cattolici; che, per levarlo di mezzo, bisogna fare in maniera che diventino più esattamente cattolici, come si suppongono quelli di Francia e di Germania.
Se nell’ordine civile si tenesse per regola generale d’abolire tutte le leggi che non sono universalmente eseguite, si terrebbe una regola pessima: benchè, in molti casi, la trasgressione della legge possa arrivare al segno di renderla inutile e dannosa, e essere un ragionevole motivo di abolirla. Ma nelle cose della religione, la regola sarebbe ben più falsa, perchè le leggi essenziali della religione non sono calcolate sugli effetti parziali e temporari, nè si piegano alle circostanze, ma intendono di piegar tutto a sè; sono emanate da un’autorità inappellabile, ed è impossibile all’uomo il sostituirne delle più convenienti. Il ministero ecclesiastico istituito da Gesù Cristo, è una di tali leggi; e il peggiore abuso che gli uomini possano fare di questo ministero, è quello di distruggerlo per quanto è in loro, col farlo cessare in qualche luogo, e per qualche tempo. Il sistema della Chiesa non è, nè dev’essere, d’estirpare gli abusi a qualunque costo, ma di combinare la conservazione di ciò che è essenziale, con l’estirpazione, o con la possibile diminuzione degli abusi: essa non imita l’artefice imperito e impaziente che spezza l’istrumento, per levarne la ruggine. Perchè ci sono abusi? Perchè gli uomini sono portati al disordine delle passioni. E perciò appunto Gesù Cristo ha data l’autorità alla Chiesa, ha istituito il ministero; perciò appunto ìl ministero è indispensabile. Quello che la Chiesa vuole evitare prima di tutto, è il male orribile d’un popolo senza cristianesimo, e l’assurdità d’un cristianesimo senza ministero. È necessario che i ministri abbiano di che vivere; e per questo fine ci sono due mezzi. L’uno sarebbe, di scegliere esclusivamente i ministri tra gli uomini provvisti di beni di fortuna: mezzo irragionevole e temerario, che, restringendo arbitrariamente la vocazione divina a una sola classe d’uomini, sconvolgerebbe affatto l’ordine del governo ecclesiastico; l’altro è d’ordinare che il ministero dia di che vivere a chi lo esercita: mezzo tanto ragionevole, che è stato stabilito in legge dal principio del cristianesimo; poichè il prete, servendo all’altare, s’inabilita ad acquistarsi il vitto altrimenti. Dunque i fedeli devono somministrare il mantenimento a’ ministri dell’altare: ecco la legge. Ma, tra i ministri, che sono uomini, non mancherà chi, rivolgendo all’avarizia ciò che è destinato al bisogno, usi illegittimamente del diritto certo di ricevere, estendendolo a cose a cui non è applicabile; ma tra i fedeli non mancherà chi, dall’idea vera, che è un’opera bona il provvedere al mantenimento de’ ministri, passi a dare a quest’opera un valore che non ha, attribuendo ad essa gli effetti che appartengono esclusivamente ad altre opere indispensabili, e sia generoso per dispensarsi d’essere cristiano: ecco l’abuso. E siccome quest’abuso è contrario allo spirito e alla lettera dell’istituzione, così il vero mezzo di levarlo, sarà di ricorrere all’istituzione stessa. Così hanno fatto tante volte quelli a cui è confidata l’autorità di farlo direttamente. La storia ecclesiastica attesta a ogni passo i loro sforzi, e spesso le riuscite: per non andar lontano, l’esempio del concilio di Trento citato qui ne è una prova; molti papi e molti vescovi misero una cura particolare a questo loro dovere; quanto non ha fatto in questa parte il solo san Carlo, stando sempre attaccato alla Chiesa? Mai insomma non sono mancati nel clero cattolico gli uomini zelanti e sinceri che alzassero la voce contro questi abusi: e li correggessero dove potevano. Tutti i fedeli finalmente possono in qualche parte rimediare agli abusi d’ogni genere, se non altro con l’essere essi medesimi pii, vigilanti, osservatori della legge divina: perchè è indubitabile che gli abusi nascono dove gli uomini li desiderano, e che gli uomini li desiderano quando sono corrotti, e, non amando la legge, se ne fingono un’altra; che chi riforma sè stesso coopera alla riforma dell’intero corpo a cui appartiene.
Abbiamo ammesso il fatto, affine di provare che non ragionerebbe chi da esso concludesse contro la religione; ma ora converrà esaminarlo. «Il prete, dice l’illustre autore, vive de’ peccati e de’ terrori del popolo; il peccatore moribondo prodiga, per pagar messe e rosari, il danaro accumulato spesso per mezzi iniquissimi: accheta a prezzo d’oro la sua coscienza, e si crea presso il volgo la riputazione d’uomo pio.»
Osservo di passaggio che, per quanto io sappia, non s’è mai parlato di retribuzioni per rosari; e, del rimanente, non essendo la recita di questi una parte del ministero ecclesiastico, se ci fossero retribuzioni, non verrebbero necessariamente ai preti.
S’osservi poi, cosa molto più importante, che non solo è dottrina cattolica, che, a scontare il peccato d’avere accumulato danaro per mezzi iniqui, è condizione necessaria la restituzione, quando sia possibile, e che rivolgerlo ad altri usi, per quanto santi possano essere, è un inganno, è un persistere nell’ingiustizia; ma ancora, che questa dottrina è universalmente predicata e conosciuta in Italia. Non oso affermare che non ci possa essere alcun ministro prevaricatore, il quale insegni il contrario; ma, se ne esiste alcuno, è certamente un’eccezione tanto rara, quanto deplorabile.
È noto quante restituzioni si facciano per mezzo de’ sacerdoti. «Que de restitutions, de réparations, la confession ne fait-elle point faire chez les catholiques1!» Que’ sacerdoti inducono allora un uomo ad acchetare la sua coscienza a prezzo d’oro; ma quest’oro, il quale non fa che passare per le loro mani, è un testimonio che, lungi dall’alterare la purità della religione per appropriarselo, insegnano che non può diventar mezzo d’espiazione, se non ritornando donde era stato ingiustamente levato.
È vero che il prete, il quale faccia il dover suo, cerca di eccitare ne’ fedeli il terrore de giudizi divini, quel terrore, da cui, per la portentosa nostra debolezza, tutto ci distrae: terrore santo, che ci richiama alla virtù; terrore nobile, che ci fa riguardare come sola vera sventura quella di fallare la nostra alta destinazione, terrore che ispira il coraggio, avvezzando chi lo sente a nulla temere degli uomini. Ma, dopo avere eccitato questo terrore con le sue istruzioni, c’è forse un prete il quale insegni che il mezzo, di viver sicuri, è di largheggiare coi preti? C’è chi n’abbia sentito uno solo? O non dicono tutti piuttosto: «Lavatevi, mondatevi, levate dagli occhi di Dio la malvagità de’ vostri pensieri, cessate di mal fare: imparate a far del bene, cercate quello che è giusto, soccorrete l’oppresso, proteggete il pupillo, difendete la vedova2?»
Certo, non si vuol dire che l’avarizia non possa vedere un oggetto di lucro nelle cose più pure, più sacre e più terribili, e (non lo dirò con parole mie, ma con quelle che proferiva raccapricciando un vescovo illustre) faire dub sang adorable de Jésus Christ un profit infâme3; e per quanto la Chiesa dovesse aver ribrezzo a supporre una tale prevaricazione, ha dovuto parlarne per prevenirla, e per renderla difficile e rara, se non impossibile. Il concilio di Trento, dopo aver professata la dottrina perpetua della Chiesa intorno al Purgatorio, al giovamento che l’anime in esso ritenute ricevono dai suffragi de fedeli, e principalmente dall’accettevole sacrificio dell’altare, dopo aver prescritto ai vescovi d’insegnare e di mantenere questa dottrina, soggiunge: «quelle cose che vengono da una certa curiosità o da superstizione, o sanno di turpe guadagno, le proibiscano come scandoli e inciampi de’ fedeli4.»
Non è qui il luogo d’indicare quest’inciampi, e di riprender quelli che li mettono nella strada della salute: nè ciò forse si converrebbe a uno a cui manca ogni genere d’autorità. Negare quelli che esistono, o giustificarli con ragioni speciose, presentare come necessario alla Chiesa ciò che è la sua desolazione e la sua vergogna, non si conviene nè a me, nè ad alcuno, come cosa vile, menzognera, e quindi irreligiosa. E non credo di mancare all’argomento col passarli sotto silenzio: credo anzi d’averlo trattato, toccando le ragioni per le quali mi par che si possa affermare che, tra gli abusi pur troppo reali, non esiste (moralmente parlando) l’abuso orribile di sostituire le largizioni ai doveri, e d’acchetare la coscienza a prezzo d’oro.
Ha però sempre parlato la Chiesa per mezzo de concili, de’ sommi pontefici, de’ vescovi: un esempio, tra mille, di zelo e di sincerità, in questa materia, si può vedere ne’ discorsi sinodali del vescovo citato dianzi, di quel Massillon che fu un tanto eloquente, val a dire un fedele interprete della legge divina5. Il nemico più ardente e più sottile della Chiesa non svelerà mai con più veemenza e con più acume gli orribili effetti dell’avarizia che entra nel core d’un ministro del santuario; e nessun figlio più docile e più tenero della Chiesa non li deplorerà con più gemito, con più umiltà, con più vivo desiderio di veder levata da essa questa deformità.
Ma noi non crediamo che sia facile l’avere questo spirito d’imparzialità; crediamo piuttosto che, nel giudicare i difetti de’ sacerdoti, è troppo facile il credere alle prevenzioni; e che queste vengono da un principio d’avversione che tutti abbiamo pur troppo al loro ministero. Quelli che ci additano la strada stretta della salute, che combattono le nostre inclinazioni, che, col loro abito solo, ci rammentano che c’è un ministero di sciogliere e di legare, che c’è un giudice di cui essi sono i ministri, un modello, per annunziare il quale essi sono istituiti; ah! è troppo preziosa al senso corrotto l’occasione di renderli sospetti, per lasciarla sfuggire: è troppa l’avversione della carne e del sangue alla legge, perchè non s’estenda anche a quelli che la predicano, perchè non si desideri di poter dire ch’essi stessi non la seguono, e che quindi può tanto meno obbligar noi che l’ascoltiamo da loro. E è, in gran parte, quest’avversione, che ci move a rovesciare in biasimo di tutti il male che vediamo in alcuni di loro, a dire che nulla sarebbe più rispettabile del ministero, se ci fosse chi lo esercitasse degnamente, e a chiuder poi gli occhi quando ci si presenta chi degnamente lo eserciti, o a malignare sulle virtù che non possiamo negare. Quindi, se nella condotta zelante d’un prete non si può supporre avarizia, perchè la povertà volontaria e la generosità sono troppo evidenti, si spiega quella condotta col desiderio di dominare, di dirigere, d’influire, d’essere considerato. Se la condotta è tanto lontana dagl’intrighi, tanto franca e tanto semplice, che non dia luogo nè anche a quest’interpretazione, ci si suppone il fanatismo, lo zelo inquieto e intollerante. Se la condotta spira amore, tranquillità e pazienza, non resta più che attribuirla a pregiudizi, a piccolezza di mente, a scarsezza di lumi: ultima ragione con la quale il mondo spiega ciò che è la perfezione d’ogni virtù e d’ogni ragionamento.
Sì, ci sono de’ preti che disprezzano quelle ricchezze delle quali annunziano la vanità e il pericolo; de preti che avrebbero orrore di ricevere i doni del povero, e che si spogliano in vece per soccorrerlo; che ricevono dal ricco con un nobile pudore, e con un interno senso di repugnanza, e, stendendo la mano, si consolano solo col pensare che presto l’apriranno per rimettere al povero quella moneta che è tanto lungi dal compensare agli occhi loro un ministero, il quale non ha altro prezzo degno che la carità. Essi passano in mezzo al mondo, e sentono i suoi scherni sull’ingordigia de’ preti; li sentono e potrebbero alzar la voce, e mostrar le loro mani pure, e il loro core desideroso solamente di quel tesoro che la ruggine non consuma6, avaro solo della salute de’ loro fratelli; ma tacciono, ma divorano le beffe del mondo, ma si rallegrano d’esser fatti degni di patir contumelia per il nome di Cristo7.
Note
- ↑ J. J. Rousseau, Émile. liv. IV, not. 41.
- ↑ Lavamini, mundi estote, auferte malum cogitationum vestrarum ab oculis meis: quiescite agere perverse; discite benefacere; quærite iudiciutn, subvenite oppresso, iudicate pupillo, defendite viduam. Isai. I, 16, 17.
- ↑ Massillon, Discours Sinodaux, XIII, De la compassion des pauvres.
- ↑ Cum catholica ecclesia, Spiritu sancto edotta, ex sacris litteris et antiqua Patrum traditione, in sacris conciliis, et novissime in hac æcumenica synodo, docuerit purgatorium esse, animasque ibi detentas fedelium suffragiis, potissimum vero acceptabili altaris sacrificio iuvari; præcipit sancta synodus episcopis, ut sanam de purgatorio doctrinam, a sanctis patribus et a sacris conciliis traditam, a Christi ftdelibus credi, teneri, doceri et ubique prædicari diligenter studeant. — Ea vero quæ ad curiositatem quamdam aut superstitionem spectant, vel turpe lucrum sapiunt, tamquam scandala et fidelium offéndicula pruhibeant. Conc. Trid. sess. XXV: Decret. de Purgatorio.
- ↑ Oltre il discorso citato, vedi il IX: De l'avarice des prêtres.
- ↑ Thesaurizate autem vobis thesauros in cœlo, ubi neque ærugo, neque tinea demolitur. Math. VI, 20.
- ↑ Et illi quidam ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati. Act. Apost. V, 41.