Osservazioni sulla morale cattolica/Capitolo XI

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CAPITOLO UNDECIMO


DELLE INDULGENZE.


Mais l’on a considéré les indulgences gratuites celles que d’aprés les concessions des papes on obtient par quelque acte extérieur de piété, comme moins abusives; on ne sauroit toutefois en concilier l’existence avec aucun principe de moralité. Lorsqu’on voit, par exemple, deux cents jours d’indulgence promis pour chaque baiser donné à la croix qui s’élève au milieu du Colisée, lorsqu’on voit dans toutes les églises d’Italie tant d’indulgennzs plénières si faciles à gagner, comment concilier ou la justice de Dieu ou sa miséricorde, avec le pardon accordé à une si foible pénitence, ou avec le châtiment réservé à celui qui n’est point à portée de le gagner par cette voie si facile? Pag. 417.


Qui si presentano naturalmente quattro questioni.

1.° Cos’è l’Indulgenza ecclesiastica?

2.° Ci può essere eccesso nelle concessioni d’indulgenze?

3.° Le concessioni eccessive vanno contro i princìpi della moralità? [p. 496 modifica]

4.° Se non producono quest’effetto, qual effetto producono?

Per risolvere queste questioni, in quanto è richiesto dall’argomento, non abbiamo a far altro che rammentare in compendio ciò che è insegnato universalmente nella Chiesa per l’istruzione de’ fedeli che vogliono profittare dell’indulgenze, e ciò che è deciso da essa, per la regola di quelli a cui è data dal suo divin fondatore la potestà di concederle.

1.° Cos’è l’indulgenza ecclesiastica?

Ne prendo la definizione dal catechismo della diocesi di Milano, che concorda con tutti i catechismi approvati dalla Chiesa. «L’indulgenza è una remissione di penitenze o pene temporali, che rimangono da scontare per i peccati già rimessi quanto al reato della colpa e della pena eterna1

2.° Ci può essere eccesso nelle concessioni d’indulgenze?

Senza dubbio: il IV concilio di Laterano e quello di Trento hanno parlato di quest’eccesso, e ne hanno o prescritti o indicati i rimedi.

3.° Le concessioni eccessive d’indulgenze vanno contro i princìpi della moralità?

No, di certo. La maniera di dispensar l’indulgenze, dice Bossuet, riguarda la disciplina2. Posto ciò, le concessioni eccessive saranno bensì un abuso; ma gli abusi di fatto non possono alterare i princìpi della moralità, i quali non appartengono alla disciplina, ma alla fede. Essendo ogni principio di moralità un domma, non può esser contradetto che da un errore dommatico. Vediamo ora, più in particolare, come i princìpi della moralità rimangono intatti, anche con ogni possibile eccesso di concessioni d’indulgenze.

La cosa essenziale, in primo grado, a ristabilire la moralità dell’uomo caduto nella colpa, è la rettitudine, o piuttosto il raddrizzamento della volontà e, per conseguenza, dell’opere, quando e fin dove ci sia la possibilità d’operare. E questa cosa essenziale, l’indulgenza, non che essere un mezzo di farne di meno, la suppone e l’esige, poichè non è concessa se non a chi è stata rimessa la colpa, cioè all’uomo che sia in istato di grazia; parole che significano: amor di Dio e de’ suoi comandamenti, dolore e detestazione de’ peccati commessi, avversione al peccato di qualunque sorte, amor degli uomini senza eccezione, perdono dell’offese ricevute, riparazione dei torti fatti, adempimento di tutti i doveri essenziali, in somma la conformità dell’animo e dell’azioni alla legge divina3. Dico cose note al cattolico, anche il più rozzo, purchè sia capace di confessarsi; giacchè l’assoluzione, per la quale il peccatore è rimesso in stato di grazia, non è data, o non è valida, se non a queste condizioni. E dico insieme cose che importano una moralità sconosciuta a’ più acuti e profondi pensatori del gentilesimo; quella moralità manifestata dalla rivelazione, e che s’estende, come oggetto, a tutto il bene, e come regola, a tutto l’uomo.

Con questa osservazione è levato, di mezzo l’equivoco che potrebbe nascere da quelle parole: Come conciliare la giustizia di Dio col perdono accordato a una così debole penitenza? L’opere alle quali è annessa [p. 497 modifica]l’indulgenza, non servono punto a ottenere il perdono della colpa, per la quale il peccatore è riconciliato con Dio. Questo perdono è anzi, come s’è visto, un preliminare necessario all’acquisto dell’indulgenza; e s’ottiene per que’ mezzi eminentemente e soprannaturalmente morali, di cui s’è discorso in un capitolo antecedente.

L’indulgenza dunque non s’applica, come s’è visto ugualmente, se non alla soddisfazione della pena temporale, dovuta per il peccato alla giustizia divina, anche dopo rimessa la colpa, e la pena eterna. Ed è la Chiesa che insegna (certo, non senza oppositori) che al peccatore riconciliato rimane un tal debito; e mette per un’altra condizione essenziale al ristabilimento nello stato di grazia (cioè in uno stato di moralità soprannaturale) il riconoscimento del debito medesimo, e il sincero e fermo proposito di scontarlo, per quanto possa, in questa vita, con opere penitenziali, sia ingiunte, sia liberamente scelte, e con l’accettar pazientemente i gastighi temporali che gli possono essere mandati da Dio. Non già che le nostre opere abbiano alcun valore a ciò, nè che noi possiamo, in mariera veruna, scontar di nostro il debito contratto con la giustizia infinita offesa da noi; ma i meriti infiniti dell’Uomo Dio, i quali ci ottengono il perdono della colpa, sono anche quelli che danno alle nostre opere penitenziali un valore che le rende atte a scontarne la pena. E la Chiesa, o prescrivendo o proponendo alcune di queste opere, applica ad esse, in maniera particolare, un tal valore, per l’autorità conferitale da Quello stesso; da cui procede ogni merito. Ma intende forse, con questo, di restringere a tali opere tutto l’obbligo e tutto il lavoro della penitenza? Per immaginarsi una cosa simile, bisognerebbe non aver cognizione veruna del suo insegnamento su questa materia. Cito di novo, come un saggio di questo universale insegnamento il catechismo citato dianzi; il quale, alla domanda: «Con quale spirito ho da procurare l’acquisto dell’indulgenze?» risponde:

«Fate prima dalla parte vostra tutto ciò che potete per soddisfare a Dio coll’esercitarvi in ogni opera salutare, e massime in quelle di mortificazione e di misericordia verso i prossimi. Poi conoscendo di non poter soddisfare abbastanza per i vostri peccati, nè colle penitenze imposte dal confessore, nè colle vostre spontanee, e ben sapendo di non aver tollerati colla debita pazienza e rassegnazione i flagelli, coi quali Dio v’ha amorosamente visitato a questo fine, procurate con ogni studio d’acquistar l’Indulgenze, profittando così dello spirito caritatevole della Chiesa nel dispensarle4

Ed ecco come, col richiedere per condizioni indispensabili, la confessione del core, e il desiderio di soddisfare, per quanto si possa, alla giustizia divina, desiderio che non è sincero, se non s’accompagna con una vita, penitente; ecco, dico, come, non solo l’indulgenza in genere, ma la più ampia indulgenza concessa alla più piccola opera si concilii con tutti i princìpi della moralità.

«Ma come conciliare la misericordia di Dio col gastigo riservato a chi non è in caso di guadagnare il perdono per questa strada così facile?»

S’osservi che è quasi impossibile il caso d’un fedele, a cui sia chiusa ogni strada di ricorrere all’indulgenze della Chiesa. Ma supponendo questo caso, la Chiesa è ben lungi dall’asserire che a questo fedele si riservi gastigo. Essa dispensa i mezzi ordinari di misericordia che Dio le ha confidati; ma è ben lungi dal voler circoscrivere questa misericordia [p. 498 modifica]infinita; dal pensare che Quei che leva e quando e cui gli piace5 non possa concedere la somma indulgenza al sommo desiderio d’ottenerla per mezzo della Chiesa, quando sia chiusa la strada di chiederla per questo mezzo.

4.° Se le concessioni eccessive d’indulgenze non vanno contro i princìpi della moralità, qual altro effetto producono?

Un effetto dannoso certamente, come tutti gli eccessi; e non occorre affaticarsi a cercarlo, poichè ce lo indica il concilio di Trento. L’effetto è di snervare la disciplina. «Il Sacrosanto Sinodo ... desidera che, nel concedere l’indulgenze, s’usi moderazione, la consuetudine antica e approvata dalla Chiesa, acciocchè con la troppa facilità non si snervi la disciplina ecclesiastica6

Infatti, «essendo le pene soddisfattorie, come un freno al peccar di novo, e avendo l’efficacia di rendere i penitenti più cauti e vigilanti nell’avvenire,... e di distruggere gli abiti viziosi con l’opposte azioni virtuose,» come insegna il medesimo concilio7; l’eccessiva diminuzione di queste pene, vien quasi a far loro perdere questo vantaggio; e la stessa ragione di previdente misericordia per cui sono imposte, non solo come espiazione, ma anche come rimedio e aiuto, consiglia la moderazione nel concederne la remissione.

Ma l’eccesso si trova egli negli esempi citati e accennati dall’autore? Non tocca a me a deciderlo, nè importa qui il deciderlo, essendosi dimostrato come l’indulgenze s’accordino co’ princìpi della moralità: che era appunto la questione.

Non sarà in vece fuor di proposito l’osservare un altro esempio d’accuse che si contradicono. Quella che s’è esaminata, cadeva sulla leggerezza delle penitenze imposte per soddisfare alla giustizia divina: accusa nella quale è supposto e l’obbligo che ne rimane al peccatore, anche riconciliato, e l’attitudine a ciò dell’opere penitenziali. Obbligo e attitudine, che furono da’ novatori citati sopra, e da Calvino principalmente, dichiarati una vana immaginazione, anzi «un’esecrabile bestemmia8, un rapire a Cristo l’onore che Gli appartiene, d’esser Lui solo oblazione, espiazione, soddisfazione per i peccati9.» Rapir l’onore a Cristo, il dire che opere per sè morte, e patimenti sterili per l’eterna salute, possano, dalla sua gloriosa vittoria sopra il peccato, acquistar vita e virtù! Come se non fosse questo medesimo un confessar la sua infinita potenza, non meno che l’infinita sua bontà; o come se la Chiesa attribuisse a quell’opere e a que’ patimenti altro valore che quello che hanno da Lui, «nel quale viviamo, nel quale meritiamo, nel quale soddisfacciamo10!» Come se non fosse un effetto, dirò così, naturale dell’accordo operato dalla Redenzione, tra la giustizia e la misericordia, il commettere la vendetta [p. 499 modifica]dell’offesa all’offensore medesimo, e far della punizione un sacrifizio volontario! E si veda come la verità strascini qualche volta verso di sè anche chi le volge risolutamente le spalle, e lo sforzi ad avvicinarsele, se non a riconoscerla intera qual è. Calvino medesimo, interpretando quel luogo di san Paolo: «Do compimento nella mia carne a ciò che rimane de’ patimenti di Cristo11; dopo aver pronunziato che «ciò non si riferisce a espiazione nè a soddisfazione di sorte veruna, ma a que’ patimenti coi quali conviene che i membri di Cristo, cioè i fedeli, siano provati, finchè rimangono nella carne,» spiega così questo pensiero: «Dice (san Paolo) che ciò che rimane de’ patimenti di Cristo, è il patire che fa di continuo ne suoi membri, dopo aver patito una volta in sè stesso. Di tanto onore Cristo ci fa degni, da riguardar come suoi i nostri patimenti12

È Cristo che patisce ne’ suoi membri; e questi patimenti rimangono sterili, e non hanno alcuna virtù d’espiare! Cristo si degna di riguardarli come suoi; e il Padre ne rigetta (offerta, come ingiuriosa a Cristo! ed è un’esecrabile bestemmia il dire che, per questa e per questa sola ineffabile degnazione, possono essere uniti co’ suoi, e partecipar così del loro merito infinito!

Del rimanente, anche quest’argomento de’ novatori contro la dottrina cattolica non avrebbe forza che contro la loro, se n’avesse veruna. Infatti, per mantenere intero e illibato a Cristo l’onere che gli appartiene13, dissero forse che la soddisfazione offerta da Lui alla giustizia divina, per i peccati, s’applichi da sè a tutti i peccatori? Non già; ma ai soli giustificati, e giustificati per la loro fede nella promessa. E, cosa strana! non avvertirono mai, in dispute così lunghe, e in tanta ripetizione dello stesso argomento, che il credere è un atto umano, nè più nè meno dell’operare, e che, col farne una condizione riguardo all’effetto, facevano anch’essi dipendere, per una parte, dall’uomo, cioè da ogni uomo in particolare, l’esser quella soddisfazione applicata a lui: che era la sola cosa in questione; giacchè l’efficacia intrinseca, la perfezione, la pienezza, la sovrabbondanza di essa non fu mai messa in questione nella Chiesa; per l’insegnamento della quale, n’avevano, di certo, avuta cognizione essi medesimi, prima di trovarla nelle Scritture. Quella condizione, dico, rapirebbe davvero l’onore a Cristo, se l’onor di Cristo dovesse consistere, com’essi pretesero, nel non lasciar nulla a fare all’uomo, al quale ha dato di poter tutto in Lui14. La Chiesa, lontana del pari e dall’insegnare una cosa simile, e dall’attribuire all’uomo alcun onore che abbia principio da lui, riconosce da Cristo ugualmente e la fede e il valore dell’opere; e lo glorifica e lo benedice d’ aver, col suo onnipotente sacrifizio, rinnovato tutto l’uomo, e fatto che, siccome tutte le facoltà di questo avevano potuto servire alla disubbidienza e alla perdizione, così potessero tutte diventare istrumento di riparazione e di merito.



Note

  1. Aggiunta all’Esposizione della dottrina cristiana, cavata dal Catechismo romano, ecc. Dell’Indulgenze.
  2. Exposition de la doctrine de l’Église catholique, § VIII.
  3. Non si deve qui intendere una conformità perfetta e d’ogni momento, che escluda ogni mancamento il più leggiero; la qual perfezione non è concessa ad alcuno de’ discendenti d’Adamo, se non per un dono specialissimo, come fu della Madre del Salvatore. Bisogna qui rammentarsi la distinzione tra le colpe gravi, che fanno perdere la grazia di Dio, e le veniali; distinzione ammessa, in altri termini, dal’illustre autore, come dal senso comune. Vedi il Cap. VI.
  4. Ibid.
  5. Dante, Purgatorio, II, 95.
  6. Sacrosancta Sinodus.... in his (indulgentiis) tamen concedendis moderationem, juxta veterem et probatam in Ecclesia consuetudinem, adhiberi cupit; ne nimia facilitate ecclesiastica disciplina enervetur. Sess. XXV. Decr. de Indulg.
  7. Procul dubio enim magnopere a peccato revocant, et quasi, freno quodam coercent hæ satisfactoriæ pœnæ, cautioresque et vigilantiores in futurum pænitentes efficiunt... et vitiosos habitus male vivendo comparatos contrariis virtutum actionibus tollunt: Sess. XIV, cap. VIII. De satisfactionis necessitate ac fructu.
  8. Quod ergo suis satisfactionibus promereri se imaginantur reconciliationem cum Deo (questo s’è già detto esser falso), pœnasque redimere ipsius iudicio debitas execrabilem esse blasphemiam, fortiter, sicuti est, asseveramus. Calv., De necessitate reformandæ Eccles.
  9. Quando ipse solus est Agnus Dei, solus quoque oblatio est pro peccatis, solus expiatio, solus satisfactio ... Honor ille quem sibi rapiunt qui Deum placare tentant suis compensationibus. Id. Instit. III, IV, 26.
  10. Ita non habet homo unde glorietur, sed omnis gloriatio nostra in Christo est; in quo vivimus, in quo meremur, in quo satisfacimus. Conc. Trid. Sess. XIV, cap. 8.
  11. Adimpleo ea, quæ desunt passionum Christi, in carne mea. Ad Coloss. 1, 24.
  12. Dicit ergo (Paulus) hoc restare passionum Christi, quod in seipso semel passus, quotidie in membris suis patitur. Eo nos honore dignatur Christus, ut nostras afflictiones suas reputet ac ducat. Instit. III, V, 4.
  13. ... ut integer et illibatus suus honor Christo servetur. Ibid. IV, 27.
  14. Omnia possum in eo qui me confortat. Ad Philip. IV, 13.