Orlando furioso (1928)/Canto 15
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CANTO QUINTODECIMO
1
Fu il vincer sempremai laudabil cosa,
vincasi o per fortuna o per ingegno:
gli è ver che la vittoria sanguinosa
spesso far suole il capitan men degno;
e quella eternamente è glorïosa,
e dei divini onori arriva al segno,
quando, servando i suoi senza alcun danno,
si fa che gl’inimici in rotta vanno.
2
La vostra, Signor mio, fu degna loda,
quando al Leone, in mar tanto feroce,
ch’avea occupata l’una e l’altra proda
del Po, da Francolin sin alla foce,
faceste sí, ch’ancor che ruggir l’oda,
s’io vedrò voi, non tremerò alla voce.
Come vincer si de’, ne dimostraste;
ch’uccideste i nemici, e noi salvaste.
3
Questo il pagan, troppo in suo danno audace,
non seppe far; che i suoi nel fosso spinse,
dove la fiamma subita e vorace
non perdonò ad alcun, ma tutti estinse.
A tanti non saria stato capace
tutto il gran fosso, ma il fuoco restrinse,
restrinse i corpi e in polve li ridusse,
acciò ch’abile a tutti il luogo fusse.
4
Undicimila et otto sopra venti
si ritrovâr ne l’affocata buca,
che v’erano discesi malcontenti;
ma cosí volle il poco saggio duca.
Quivi fra tanto lume or sono spenti,
e la vorace fiamma li manuca:
e Rodomonte, causa del mal loro,
se ne va esente da tanto martoro;
5
che tra’ nemici alla ripa piú interna
era passato d’un mirabil salto.
Se con gli altri scendea ne la caverna,
questo era ben il fin d’ogni suo assalto.
Rivolge gli occhi a quella valle inferna;
e quando vede il fuoco andar tant’alto,
e di sua gente il pianto ode e lo strido,
bestemmia il ciel con spaventoso grido.
6
Intanto il re Agramante mosso avea
impetuoso assalto ad una porta;
che, mentre la crudel battaglia ardea
quivi ove è tanta gente afflitta e morta,
quella sprovista forse esser credea
di guardia, che bastasse alla sua scorta.
Seco era il re d’Arzilla Bambirago,
e Baliverzo, d’ogni vizio vago;
7
e Corineo di Mulga, e Prusïone,
il ricco re de l’Isole beate;
Malabuferso che la regione
tien di Fizan, sotto continua estate;
altri signori et altre assai persone
esperte ne la guerra e bene armate;
e molti ancor senza valore e nudi,
che ’l cor non s’armerian con mille scudi.
8
Trovò tutto il contrario al suo pensiero
in questa parte il re de’ Saracini:
perché in persona il capo de l’Impero
v’era, re Carlo, e de’ suoi paladini,
re Salamone et il danese Ugiero,
et ambo i Guidi et ambo gli Angelini,
e ’l duca di Bavera e Ganelone,
e Berlengier e Avolio e Avino e Otone;
9
gente infinita poi di minor conto,
de’ Franchi, de’ Tedeschi e de’ Lombardi,
presente il suo signor, ciascuno pronto
a farsi riputar fra i piú gagliardi.
Di questo altrove io vo’ rendervi conto;
ch’ad un gran duca è forza ch’io riguardi,
il qual mi grida, e di lontano accenna,
e priega ch’io nol lasci ne la penna.
10
Gli è tempo ch’io ritorni ove lasciai
l’aventuroso Astolfo d’Inghilterra,
che ’l lungo esilio avendo in odio ormai,
di desiderio ardea de la sua terra;
come gli n’avea data pur assai
speme colei ch’Alcina vinse in guerra.
Ella di rimandarvilo avea cura
per la via piú espedita e piú sicura.
11
E cosí una galea fu apparechiata,
di che miglior mai non solcò marina;
e perché ha dubbio pur tutta fïata,
che non gli turbi il suo viaggio Alcina,
vuol Logistilla che con forte armata
Andronica ne vada e Sofrosina,
tanto che nel mar d’Arabi, o nel golfo
de’ Persi, giunga a salvamento Astolfo.
12
Piú tosto vuol che volteggiando rada
gli Sciti e gl’Indi e i regni nabatei,
e torni poi per cosí lunga strada
a ritrovare i Persi e gli Eritrei;
che per quel boreal pelago vada,
che turban sempre iniqui venti e rei,
e sí, qualche stagion, pover di sole,
che starne senza alcuni mesi suole.
13
La fata, poi che vide acconcio il tutto,
diede licenzia al duca di partire,
avendol prima ammaestrato e instrutto
di cose assai, che fôra lungo a dire;
e per schivar che non sia piú ridutto
per arte maga, onde non possa uscire,
un bello et util libro gli avea dato,
che per suo amore avesse ognora allato.
14
Come l’uom riparar debba agl’incanti
mostra il libretto che costei gli diede:
dove ne tratta o piú dietro o piú inanti,
per rubrica e per indice si vede.
Un altro don gli fece ancor, che quanti
doni fur mai, di gran vantaggio eccede:
e questo fu d’orribil suono un corno,
che fa fugire ognun che l’ode intorno.
15
Dico che ’l corno è di sí orribil suono,
ch’ovunque s’oda, fa fuggir la gente:
non può trovarsi al mondo un cor sí buono,
che possa non fuggir come lo sente:
rumor di vento e di termuoto, e ’l tuono,
a par del suon di questo, era nïente.
Con molto riferir di grazie, prese
da la fata licenzia il buono Inglese.
16
Lasciando il porto e l’onde piú tranquille,
con felice aura ch’alla poppa spira,
sopra le ricche e populose ville
de l’odorifera India il duca gira,
scoprendo a destra et a sinistra mille
isole sparse; e tanto va, che mira
la terra di Tomaso, onde il nocchiero
piú a tramontana poi volge il sentiero.
17
Quasi radendo l’aurea Chersonesso,
la bella armata il gran pelago frange:
e costeggiando i ricchi liti, spesso
vede come nel mar biancheggi il Gange;
e Traprobane vede e Cori appresso;
e vede il mar che fra i duo liti s’ange.
Dopo gran via furo a Cochino, e quindi
usciro fuor dei termini degl’Indi.
18
Scorrendo il duca il mar con sí fedele
e sí sicura scorta, intender vuole,
e ne domanda Andronica, se de le
parti c’han nome dal cader del sole,
mai legno alcun che vada a remi e a vele,
nel mare orïentale apparir suole;
e s’andar può senza toccar mai terra,
chi d’India scioglia, in Francia o in Inghilterra.
19
— Tu déi sapere (Andronica risponde)
che d’ogn’intorno il mar la terra abbraccia;
e van l’una ne l’altra tutte l’onde,
sia dove bolle o dove il mar s’aggiaccia;
ma perché qui davante si difonde,
e sotto il mezzodí molto si caccia
la terra d’Etïopia, alcuno ha detto
ch’a Nettunno ir piú inanzi ivi è interdetto.
20
Per questo dal nostro indico levante
nave non è che per Europa scioglia;
né si muove d’Europa navigante
ch’in queste nostre parti arrivar voglia.
Il ritrovarsi questa terra avante,
e questi e quelli al ritornare invoglia;
che credeno, veggendola sí lunga,
che con l’altro emisperio si congiunga.
21
Ma volgendosi gli anni, io veggio uscire
da l’estreme contrade di ponente
nuovi Argonauti e nuovi Tifi, e aprire
la strada ignota infin al dí presente:
altri volteggiar l’Africa, e seguire
tanto la costa de la negra gente,
che passino quel segno onde ritorno
fa il sole a noi, lasciando il Capricorno;
22
e ritrovar del lungo tratto il fine,
che questo fa parer dui mar diversi;
e scorrer tutti i liti e le vicine
isole d’Indi, d’Arabi e di Persi:
altri lasciar le destre e le mancine
rive che due per opra Erculea fêrsi;
e del sole imitando il camin tondo,
ritrovar nuove terre e nuovo mondo.
23
Veggio la santa croce, e veggio i segni
imperïal nel verde lito eretti:
veggio altri a guardia dei battuti legni,
altri all’acquisto del paese eletti:
veggio da dieci cacciar mille, e i regni
di lá da l’India ad Aragon suggetti;
e veggio i capitan di Carlo quinto,
dovunque vanno, aver per tutto vinto.
24
Dio vuol ch’ascosa antiquamente questa
strada sia stata, e ancor gran tempo stia;
né che prima si sappia, che la sesta
e la settima etá passata sia:
e serba a farla al tempo manifesta,
che vorrá porre il mondo a monarchia,
sotto il piú saggio imperatore e giusto,
che sia stato o sará mai dopo Augusto.
25
Del sangue d’Austria e d’Aragon io veggio
nascer sul Reno alla sinistra riva
un principe, al valor del qual pareggio
nessun valor, di cui si parli o scriva.
Astrea veggio per lui riposta in seggio,
anzi di morta ritornata viva;
e le virtú che cacciò il mondo, quando
lei cacciò ancora, uscir per lui di bando.
26
Per questi merti la Bontá suprema
non solamente di quel grande impero
ha disegnato ch’abbia dïadema
ch’ebbe Augusto, Traian, Marco e Severo;
ma d’ogni terra e quinci e quindi estrema,
che mai né al sol né all’anno apre il sentiero:
e vuol che sotto a questo imperatore
solo un ovile sia, solo un pastore.
27
E perch’abbian piú facile successo
gli ordini in cielo eternamente scritti,
gli pon la somma Providenzia appresso
in mare e in terra capitani invitti.
Veggio Hernando Cortese, il quale ha messo
nuove cittá sotto i cesarei editti,
e regni in Orïente sí remoti,
ch’a noi, che siamo in India, non son noti.
28
Veggio Prosper Colonna, e di Pescara
veggio un marchese, e veggio dopo loro
un giovene del Vasto, che fan cara
parer la bella Italia ai Gigli d’oro:
veggio ch’entrare inanzi si prepara
quel terzo agli altri a guadagnar l’alloro:
come buon corridor ch’ultimo lassa
le mosse, e giunge, e inanzi a tutti passa.
29
Veggio tanto il valor, veggio la fede
tanta d’Alfonso (che ’l suo nome è questo),
ch’in cosí acerba etá, che non eccede
dopo il vigesimo anno ancora il sesto,
l’imperator l’esercito gli crede,
il qual salvando, salvar non che ’l resto,
ma farsi tutto il mondo ubidïente
con questo capitan sará possente.
30
Come con questi, ovunque andar per terra
si possa, accrescerá l’imperio antico;
cosí per tutto il mar, ch’in mezzo serra
di lá l’Europa, e di qua l’Afro aprico,
sará vittorïoso in ogni guerra,
poi ch’Andrea Doria s’avrá fatto amico.
Questo è quel Doria che fa dai pirati
sicuro il vostro mar per tutti i lati.
31
Non fu Pompeio a par di costui degno,
se ben vinse e cacciò tutti i corsari;
però che quelli al piú possente regno
che fosse mai, non poteano esser pari:
ma questo Doria, sol col proprio ingegno
e proprie forze, purgherá quei mari;
sí che da Calpe al Nilo, ovunque s’oda
il nome suo, tremar veggio ogni proda.
32
Sotto la fede entrar, sotto la scorta
di questo capitan di ch’io ti parlo,
veggio in Italia, ove da lui la porta
gli sará aperta, alla corona Carlo.
Veggio che ’l premio che di ciò riporta,
non tien per sé, ma fa alla patria darlo:
con prieghi ottien ch’in libertá la metta,
dove altri a sé l’avria forse suggetta.
33
Questa pietá ch’egli alla patria mostra,
è degna di piú onor d’ogni battaglia
ch’in Francia o in Spagna o ne la terra vostra
vincesse Iulio, o in Africa o in Tessaglia.
Né il grande Ottavio, né chi seco giostra
di par, Antonio, in piú onoranza saglia
pei gesti suoi; ch’ogni lor laude amorza
l’avere usato alla lor patria forza.
34
Questi et ogn’altro che la patria tenta
di libera far serva, si arrosisca;
né dove il nome d’Andrea Doria senta,
di levar gli occhi in viso d’uomo ardisca.
Veggio Carlo che ’l premio gli augumenta;
ch’oltre quel ch’in commun vuol che fruisca,
gli dá la ricca terra ch’ai Normandi
sará principio a farli in Puglia grandi.
35
A questo capitan non pur cortese
il magnanimo Carlo ha da mostrarsi,
ma a quanti avrá ne le cesaree imprese
del sangue lor non ritrovati scarsi.
D’aver cittá, d’aver tutto un paese
donato a un suo fedel, piú ralegrarsi
lo veggio, e a tutti quei che ne son degni,
che d’acquistar nuov’altri imperii e regni. —
36
Cosí de le vittorie le qual, poi
ch’un gran numero d’anni sará corso,
daranno a Carlo i capitani suoi,
facea col duca Andronica discorso:
e la compagna intanto ai venti eoi
viene allentando e raccogliendo il morso;
e fa ch’or questo or quel propizio l’esce,
e come vuol li minuisce e cresce.
37
Veduto aveano intanto il mar de’ Persi
come in sí largo spazio si dilaghi;
onde vicini in pochi giorni fêrsi
al golfo che nomâr gli antiqui Maghi.
Quivi pigliaro il porto, e fur conversi
con la poppa alla ripa i legni vaghi;
quindi, sicur d’Alcina e di sua guerra,
Astolfo il suo camin prese per terra.
38
Passò per piú d’un campo e piú d’un bosco,
per piú d’un monte e per piú d’una valle;
ove ebbe spesso, all’aer chiaro e al fosco,
i ladroni or inanzi or alle spalle.
Vide leoni, e draghi pien di tòsco,
et altre fere attraversarsi il calle;
ma non sí tosto avea la bocca al corno,
che spaventati gli fuggian d’intorno.
39
Vien per l’Arabia ch’è detta Felice,
ricca di mirra e d’odorato incenso,
che per suo albergo l’unica fenice
eletto s’ha di tutto il mondo immenso;
fin che l’onda trovò vendicatrice
giá d’Israel, che per divin consenso
Faraone sommerse e tutti i suoi:
e poi venne alla terra degli Eroi.
40
Lungo il fiume Traiano egli cavalca
su quel destrier ch’al mondo è senza pare,
che tanto leggiermente e corre e valca,
che ne l’arena l’orma non n’appare:
l’erba non pur, non pur la nieve calca;
coi piedi asciutti andar potria sul mare;
e sí si stende al corso, e sí s’affretta,
che passa e vento e folgore e saetta.
41
Questo è il destrier che fu de l’Argalia,
che di fiamma e di vento era concetto;
e senza fieno e biada, si nutria
de l’aria pura, e Rabican fu detto.
Venne, seguendo il duca la sua via,
dove dá il Nilo a quel fiume ricetto;
e prima che giugnesse in su la foce,
vide un legno venire a sé veloce.
42
Naviga in su la poppa uno eremita
con bianca barba, a mezzo il petto lunga,
che sopra il legno il paladino invita,
e: — Figliuol mio (gli grida da la lunga),
se non t’è in odio la tua propria vita,
se non brami che morte oggi ti giunga,
venir ti piaccia su quest’altra arena;
ch’a morir quella via dritto ti mena.
43
Tu non andrai piú che sei miglia inante,
che troverai la sanguinosa stanza
dove s’alberga un orribil gigante
che d’otto piedi ogni statura avanza.
Non abbia cavallier né vïandante
di partirsi da lui, vivo, speranza:
ch’altri il crudel ne scanna, altri ne scuoia,
molti ne squarta, e vivo alcun ne ’ngoia.
44
Piacer, fra tanta crudeltá, si prende
d’una rete ch’egli ha, molto ben fatta:
poco lontana al tetto suo la tende,
e ne la trita polve in modo appiatta,
che chi prima nol sa, non la comprende,
tanto è sottil, tanto egli ben l’adatta:
e con tai gridi i peregrin minaccia,
che spaventati dentro ve li caccia.
45
E con gran risa, aviluppati in quella
se li strascina sotto il suo coperto;
né cavallier riguarda né donzella,
o sia di grande o sia di picciol merto:
e mangiata la carne, e le cervella
succhiate e ’l sangue, dá l’ossa al deserto;
e de l’umane pelli intorno intorno
fa il suo palazzo orribilmente adorno.
46
Prendi quest’altra via, prendila, figlio,
che fin al mar ti fia tutta sicura. —
— Io ti ringrazio, padre, del consiglio
(rispose il cavallier senza paura),
ma non istimo per l’onor periglio,
di ch’assai piú che de la vita ho cura.
Per far ch’io passi, invan tu parli meco;
anzi vo al dritto a ritrovar lo speco.
47
Fuggendo, posso con disnor salvarmi;
ma tal salute ho piú che morte a schivo.
S’io vi vo, al peggio che potrá incontrarmi,
fra molti resterò di vita privo;
ma quando Dio cosí mi drizzi l’armi,
che colui morto, et io rimanga vivo,
sicura a mille renderò la via:
sí che l’util maggior che ’l danno fia.
48
Metto all’incontro la morte d’un solo
alla salute di gente infinita. —
— Vattene in pace (rispose), figliuolo;
Dio mandi in difension de la tua vita
l’arcangelo Michel dal sommo polo: —
e benedillo il semplice eremita.
Astolfo lungo il Nil tenne la strada,
sperando piú nel suon che ne la spada.
49
Giace tra l’alto fiume e la palude
picciol sentier ne l’arenosa riva:
la solitaria casa lo richiude,
d’umanitade e di commercio priva.
Son fisse intorno teste e membra nude
de l’infelice gente che v’arriva.
Non v’è finestra, non v’è merlo alcuno,
onde penderne almen non si veggia uno.
50
Qual ne le alpine ville o ne’ castelli
suol cacciator che gran perigli ha scorsi,
su le porte attaccar l’irsute pelli,
l’orride zampe e i grossi capi d’orsi;
tal dimostrava il fier gigante quelli
che di maggior virtú gli erano occorsi.
D’altri infiniti sparse appaion l’ossa;
et è di sangue uman piena ogni fossa.
51
Stassi Caligorante in su la porta;
che cosí ha nome il dispietato mostro
ch’orna la sua magion di gente morta,
come alcun suol de panni d’oro o d’ostro.
Costui per gaudio a pena si comporta,
come il duca lontan se gli è dimostro;
ch’eran duo mesi, e il terzo ne venía,
che non fu cavallier per quella via.
52
Vêr la palude, ch’era scura e folta
di verdi canne, in gran fretta ne viene;
che disegnato avea correre in volta,
e uscire al paladin dietro alle schene;
che ne la rete, che tenea sepolta
sotto la polve, di cacciarlo ha spene,
come avea fatto gli altri peregrini
che quivi tratto avean lor rei destini.
53
Come venire il paladin lo vede,
ferma il destrier, non senza gran sospetto
che vada in quelli lacci a dar del piede,
di che il buon vecchiarel gli avea predetto.
Quivi il soccorso del suo corno chiede,
e quel sonando fa l’usato effetto:
nel cor fere il gigante che l’ascolta,
di tal timor, ch’a dietro i passi volta.
54
Astolfo suona, e tuttavolta bada;
che gli par sempre che la rete scocchi.
Fugge il fellon, né vede ove si vada;
che, come il core, avea perduti gli occhi.
Tanta è la tema, che non sa far strada,
che ne li proprii aguati non trabocchi:
va ne la rete; e quella si disserra,
tutto l’annoda, e lo distende in terra.
55
Astolfo, ch’andar giú vede il gran peso,
giá sicuro per sé, v’accorre in fretta;
e con la spada in man, d’arcion disceso,
va per far di mill’anime vendetta.
Poi gli par che s’uccide un che sia preso,
viltá, piú che virtú, ne sará detta;
che legate le braccia, i piedi e il collo
gli vede sí, che non può dare un crollo.
56
Avea la rete giá fatta Vulcano
di sottil fil d’acciar, ma con tal arte,
che saria stata ogni fatica invano
per ismagliarne la piú debol parte;
et era quella che giá piedi e mano
avea legate a Venere et a Marte.
La fe’ il geloso, e non ad altro effetto,
che per pigliarli insieme ambi nel letto.
57
Mercurio al fabbro poi la rete invola;
che Cloride pigliar con essa vuole,
Cloride bella che per l’aria vola
dietro all’Aurora, all’apparir del sole,
e dal raccolto lembo de la stola
gigli spargendo va, rose e vïole.
Mercurio tanto questa ninfa attese,
che con la rete in aria un dí la prese.
58
Dove entra in mare il gran fiume etïopo,
par che la dea presa volando fosse.
Poi nel tempio d’Anubide a Canopo
la rete molti seculi serbosse.
Caligorante tremila anni dopo,
di lá, dove era sacra, la rimosse:
se ne portò la rete il ladrone empio,
et arse la cittade, e rubò il tempio.
59
Quivi adattolla in modo in su l’arena,
che tutti quei ch’avean da lui la caccia
vi davan dentro; et era tocca a pena,
che lor legava e collo e piedi e braccia.
Di questa levò Astolfo una catena,
e le man dietro a quel fellon n’allaccia;
le braccia e ’l petto in guisa gli ne fascia,
che non può sciorsi: indi levar lo lascia.
60
Dagli altri nodi avendol sciolto prima,
ch’era tornato uman piú che donzella,
di trarlo seco e di mostrarlo stima
per ville, per cittadi e per castella.
Vuol la rete anco aver, di che né lima
né martel fece mai cosa piú bella:
ne fa somier colui ch’alla catena
con pompa trionfal dietro si mena.
61
L’elmo e lo scudo anche a portar gli diede,
come a valletto, e seguitò il camino,
di gaudio empiendo, ovunque metta il piede,
ch’ir possa ormai sicuro il peregrino.
Astolfo se ne va tanto, che vede
ch’ai sepolcri di Memfi è giá vicino,
Memfi per le piramidi famoso:
vede all’incontro il Cairo populoso.
62
Tutto il popul correndo si traea
per vedere il gigante smisurato.
— Come è possibil (l’un l’altro dicea)
che quel piccolo il grande abbia legato? —
Astolfo a pena inanzi andar potea,
tanto la calca il preme da ogni lato;
e come cavallier d’alto valore
ognun l’ammira, e gli fa grande onore.
63
Non era grande il Cairo cosí allora,
come se ne ragiona a nostra etade:
che ’l populo capir, che vi dimora,
non puon diciottomila gran contrade;
e che le case hanno tre palchi, e ancora
ne dormono infiniti in su le strade;
e che ’l soldano v’abita un castello
mirabil di grandezza, e ricco e bello;
64
e che quindicimila suoi vasalli,
che son cristiani rinegati tutti,
con mogli, con famiglie e con cavalli
ha sotto un tetto sol quivi ridutti.
Astolfo veder vuole ove s’avalli,
e quanto il Nilo entri nei salsi flutti
a Damïata; ch’avea quivi inteso,
qualunque passa restar morto o preso.
65
Però ch’in ripa al Nilo in su la foce
si ripara un ladron dentro una torre,
ch’a paesani e a peregrini nuoce,
e fin al Cairo, ognun rubando, scorre.
Non gli può alcun resistere; et ha voce
che l’uom gli cerca invan la vita tôrre:
centomila ferite egli ha giá avuto,
né ucciderlo però mai s’è potuto.
66
Per veder se può far rompere il filo
alla Parca di lui, sí che non viva,
Astolfo viene a ritrovare Orrilo
(cosí avea nome), e a Damïata arriva;
et indi passa ove entra in mare il Nilo,
e vede la gran torre in su la riva,
dove s’alberga l’anima incantata
che d’un folletto nacque e d’una fata.
67
Quivi ritruova che crudel battaglia
era tra Orrilo e dui guerrieri accesa.
Orrilo è solo; e sí que’ dui travaglia,
ch’a gran fatica gli puon far difesa:
e quanto in arme l’uno e l’altro vaglia,
a tutto il mondo la fama palesa.
Questi erano i dui figli d’Olivero,
Grifone il bianco et Aquilante il nero.
68
Gli è ver che ’l negromante venuto era
alla battaglia con vantaggio grande;
che seco tratto in campo avea una fera,
la qual si truova solo in quelle bande:
vive sul lito e dentro alla rivera;
e i corpi umani son le sue vivande,
de le persone misere et incaute
de viandanti e d’infelici naute.
69
La bestia ne l’arena appresso al porto
per man dei duo fratei morta giacea;
e per questo ad Orril non si fa torto,
s’a un tempo l’uno e l’altro gli nocea.
Piú volte l’han smembrato e non mai morto,
né, per smembrarlo, uccider si potea;
che se tagliato o mano 0 gamba gli era,
la rapiccava, che parea di cera.
70
Or fin a’ denti il capo gli divide
Grifone, or Aquilante fin al petto.
Egli dei colpi lor sempre si ride:
s’adiran essi, che non hanno effetto.
Chi mai d’alto cader l’argento vide,
che gli alchimisti hanno mercurio detto,
e spargere e raccor tutti i suo’ membri,
sentendo di costui, se ne rimembri.
71
Se gli spiccano il capo, Orrilo scende,
né cessa brancolar fin che lo truovi;
et or pel crine et or pel naso il prende,
lo salda al collo, e non so con che chiovi.
Pigliai talor Grifone, e ’l braccio stende,
nel fiume il getta, e non par ch’anco giovi;
che nuota Orrilo al fondo come un pesce,
e col suo capo salvo alla ripa esce.
72
Due belle donne onestamente ornate,
l’una vestita a bianco e l’altra a nero,
che de la pugna causa erano state,
stavano a riguardar l’assalto fiero.
Queste eran quelle due benigne fate
ch’avean notriti i figli d’Oliviero,
poi che li trasson teneri citelli
dai curvi artigli di duo grandi augelli,
73
che rapiti gli avevano a Gismonda,
e portati lontan dal suo paese.
Ma non bisogna in ciò ch’io mi diffonda,
ch’a tutto il mondo è l’istoria palese;
ben che l’autor nel padre si confonda,
ch’un per un altro (io non so come) prese.
Or la battaglia i duo gioveni fanno,
che le due donne ambi pregati n’hanno.
74
Era in quel clima giá sparito il giorno,
all’isole ancor alto di Fortuna;
l’ombre avean tolto ogni vedere a torno
sotto l’incerta e mal compresa luna;
quando alla ròcca Orril fece ritorno,
poi ch’alla bianca e alla sorella bruna
piacque di differir l’aspra battaglia
fin che ’l sol nuovo all’orizzonte saglia.
75
Astolfo, che Grifone et Aquilante,
et all’insegne e piú al ferir gagliardo,
riconosciuto avea gran pezzo inante,
lor non fu altiero a salutar né tardo.
Essi vedendo che quel che ’l gigante
traea legato, era il baron dal pardo
(che cosí in corte era quel duca detto),
raccolser lui con non minore affetto.
76
Le donne a riposare i cavallieri
menaro a un lor palagio indi vicino.
Donzelle incontra vennero e scudieri
con torchi accesi, a mezzo del camino.
Diero a chi n’ebbe cura, i lor destrieri,
trassonsi l’arme; e dentro un bel giardino
trovâr ch’apparechiata era la cena
ad una fonte limpida et amena.
77
Fan legare il gigante alla verdura
con un’altra catena molto grossa
ad una quercia di molt’anni dura,
che non si romperá per una scossa;
e da dieci sergenti averne cura,
che la notte discior non se ne possa,
et assalirli, e forse far lor danno,
mentre sicuri e senza guardia stanno.
78
All’abondante e sontuosa mensa,
dove il manco piacer fur le vivande,
del ragionar gran parte si dispensa
sopra d’Orrilo e del miracol grande,
che quasi par un sogno a chi vi pensa,
ch’or capo or braccio a terra se gli mande,
et egli lo raccolga e lo raggiugna,
e piú feroce ognor torni alla pugna.
79
Astolfo nel suo libro avea giá letto
(quel ch’agl’incanti riparare insegna)
ch’ad Orril non trarrá l’alma del petto
fin ch’un crine fatal nel capo tegna;
ma, se lo svelle o tronca, fia constretto
che suo mal grado fuor l’alma ne vegna.
Questo ne dice il libro; ma non come
conosca il crine in cosí folte chiome.
80
Non men de la vittoria si godea,
che se n’avesse Astolfo giá la palma;
come chi speme in pochi colpi avea
svellere il crine al negromante e l’alma.
Però di quella impresa promettea
tor sugli omeri suoi tutta la salma:
Orril fará morir, quando non spiaccia
ai duo fratei, ch’egli la pugna faccia.
81
Ma quei gli danno volentier l’impresa,
certi che debbia affaticarsi invano.
Era giá l’altra aurora in cielo ascesa,
quando calò dai muri Orrilo al piano.
Tra il duca e lui fu la battaglia accesa:
la mazza l’un, l’altro ha la spada in mano.
Di mille attende Astolfo un colpo trarne,
che lo spirto gli sciolga da la carne.
82
Or cader gli fa il pugno con la mazza,
or l’uno or l’altro braccio con la mano;
quando taglia a traverso la corazza,
e quando il va troncando a brano a brano:
ma ricogliendo sempre de la piazza
va le sue membra Orrilo, e si fa sano.
S’in cento pezzi ben l’avesse fatto,
redintegrarsi il vedea Astolfo a un tratto.
83
Al fin di mille colpi un gli ne colse
sopra le spalle ai termini del mento:
la testa e l’elmo dal capo gli tolse,
né fu d’Orrilo a dismontar piú lento.
La sanguinosa chioma in man s’avolse,
e risalse a cavallo in un momento;
e la portò correndo incontra ’l Nilo,
che riaver non la potesse Orrilo.
84
Quel sciocco, che del fatto non s’accorse,
per la polve cercando iva la testa:
ma come intese il corridor via tôrse,
portare il capo suo per la foresta;
immantinente al suo destrier ricorse,
sopra vi sale, e di seguir non resta.
Volea gridare: — Aspetta, volta, volta! —
ma gli avea il duca giá la bocca tolta.
85
Pur, che non gli ha tolto anco le calcagna
si riconforta, e segue a tutta briglia.
Dietro il lascia gran spazio di campagna
quel Rabican che corre a maraviglia.
Astolfo intanto per la cuticagna
va da la nuca fin sopra le ciglia
cercando in fretta, se ’l crine fatale
conoscer può, ch’Orril tiene immortale.
86
Fra tanti e innumerabili capelli,
un piú de l’altro non si stende o torce:
qual dunque Astolfo sceglierá di quelli,
che per dar morte al rio ladron raccorce?
— Meglio è (disse) che tutti io tagli o svelli: —
né si trovando aver rasoi né force,
ricorse immantinente alla sua spada,
che taglia sí, che si può dir che rada.
87
E tenendo quel capo per lo naso,
dietro e dinanzi lo dischioma tutto.
Trovò fra gli altri quel fatale a caso:
si fece il viso allor pallido e brutto,
travolse gli occhi, e dimostrò all’occaso,
per manifesti segni, esser condutto;
e ’l busto che seguia troncato al collo,
di sella cadde, e diè l’ultimo crollo.
88
Astolfo, ove le donne e i cavallieri
lasciato avea, tornò col capo in mano,
che tutti avea di morte i segni veri,
e mostrò il tronco ove giacea lontano.
Non so ben se lo vider volentieri,
ancor che gli mostrasser viso umano;
che la intercetta lor vittoria forse
d’invidia ai duo germani il petto morse.
89
Né che tal fin quella battaglia avesse,
credo piú fosse alle due donne grato.
Queste, perché piú in lungo si traesse
de’ duo fratelli il doloroso fato
ch’in Francia par ch’in breve esser dovesse,
con loro Orrilo avean quivi azzuffato,
con speme di tenerli tanto a bada,
che la trista influenzia se ne vada.
90
Tosto che ’l castellan di Damïata
certificossi ch’era morto Orrilo,
la columba lasciò, ch’avea legata
sotto l’ala la lettera col filo.
Quella andò al Cairo; et indi fu lasciata
un’altra altrove, come quivi è stilo:
sí che in pochissime ore andò l’aviso
per tutto Egitto, ch’era Orrilo ucciso.
91
Il duca, come al fin trasse l’impresa,
confortò molto i nobili garzoni,
ben che da sé v’avean la voglia intesa,
né bisognavan stimuli né sproni,
che per difender de la santa Chiesa
e del romano Imperio le ragioni,
lasciasser le battaglie d’Orïente,
e cercassino onor ne la lor gente.
92
Cosí Grifone et Aquilante tolse
ciascuno da la sua donna licenzia;
le quali, ancor che lor ne ’ncrebbe e dolse,
non vi seppon però far resistenzia.
Con essi Astolfo a man destra si volse;
che si deliberâr far riverenzia
ai santi luoghi ove Dio in carne visse,
prima che verso Francia si venisse.
93
Potuto avrian pigliar la via mancina,
ch’era piú dilettevole e piú piana,
e mai non si scostar da la marina;
ma per la destra andaro orrida e strana,
perché l’alta cittá di Palestina
per questa sei giornate è men lontana.
Acqua si truova et erba in questa via:
di tutti gli altri ben v’è carestia.
94
Sí che prima ch’entrassero in vïaggio,
ciò che lor bisognò, fecion raccorre,
e carcar sul gigante il carrïaggio,
ch’avria portato in collo anco una torre.
Al finir del camino aspro e selvaggio,
da l’alto monte alla lor vista occorre
la santa terra, ove il superno Amore
lavò col proprio sangue il nostro errore.
95
Trovano in su l’entrar de la cittade
un giovene gentil, lor conoscente,
Sansonetto da Meca, oltre l’etade,
ch’era nel primo fior, molto prudente;
d’alta cavalleria, d’alta bontade
famoso, e riverito fra la gente.
Orlando lo converse a nostra fede,
e di sua man battesmo anco gli diede.
96
Quivi lo trovan che disegna a fronte
del calife d’Egitto una fortezza;
e circondar vuole il Calvario monte
di muro di duo miglia di lunghezza.
Da lui raccolti fur con quella fronte
che può d’interno amor dar piú chiarezza,
e dentro accompagnati, e con grande agio
fatti alloggiar nel suo real palagio.
97
Avea in governo egli la terra, e in vece
di Carlo vi reggea l’imperio giusto.
Il duca Astolfo a costui dono fece
di quel sí grande e smisurato busto,
ch’a portar pesi gli varrá per diece
bestie da soma, tanto era robusto.
Diegli Astolfo il gigante, e diegli appresso
la rete ch’in sua forza l’avea messo.
98
Sansonetto all’incontro al duca diede
per la spada una cinta ricca e bella;
e diede spron per l’uno e l’altro piede,
che d’oro avean la fibbia e la girella;
ch’esser del cavallier stati si crede,
che liberò dal drago la donzella:
al Zaffo avuti con molt’altro arnese
Sansonetto gli avea, quando lo prese.
99
Purgati de lor colpe a un monasterio
che dava di sé odor di buoni esempii,
de la passion di Cristo ogni misterio
contemplando n’andâr per tutti i tempii
ch’or con eterno obbrobrio e vituperio
agli cristiani usurpano i Mori empii.
L’Europa è in arme, e di far guerra agogna
in ogni parte, fuor ch’ove bisogna.
100
Mentre avean quivi l’animo divoto,
a perdonanze e a cerimonie intenti,
un peregrin di Grecia, a Grifon noto,
novelle gli arecò gravi e pungenti,
dal suo primo disegno e lungo voto
troppo diverse e troppo differenti;
e quelle il petto gl’infiammaron tanto,
che gli scacciâr l’orazïon da canto.
101
Amava il cavallier, per sua sciagura,
una donna ch’avea nome Orrigille:
di piú bel volto e di miglior statura
non se ne sceglierebbe una fra mille;
ma disleale e di sí rea natura,
che potresti cercar cittadi e ville,
la terra ferma e l’isole del mare,
né credo ch’una le trovassi pare.
102
Ne la cittá di Constantin lasciata
grave l’avea di febbre acuta e fiera.
Or quando rivederla alla tornata
piú che mai bella, e di goderla spera,
ode il meschin, ch’in Antïochia andata
dietro un suo nuovo amante ella se n’era,
non le parendo ormai di piú patire
ch’abbia in sí fresca etá sola a dormire.
103
Da indi in qua ch’ebbe la trista nuova,
sospirava Grifon notte e dí sempre.
Ogni piacer ch’agli altri aggrada e giova,
par ch’a costui piú l’animo distempre:
pensilo ognun, ne li cui danni pruova
Amor, se li suoi strali han buone tempre.
Et era grave sopra ogni martíre,
che ’l mal ch’avea si vergognava a dire.
104
Questo, perché mille fïate inante
giá ripreso l’avea di quello amore,
di lui piú saggio, il fratello Aquilante,
e cercato colei trargli del core,
colei ch’al suo giudicio era di quante
femine rie si trovin la peggiore.
Grifon l’escusa, se ’l fratel la danna;
e le piú volte il parer proprio inganna.
105
Però fece pensier, senza parlarne
con Aquilante, girsene soletto
sin dentro d’Antïochia, e quindi trarne
colei che tratto il cor gli avea del petto;
trovar colui che gli l’ha tolta, e farne
vendetta tal, che ne sia sempre detto.
Dirò, come ad effetto il pensier messe,
nell’altro canto, e ciò che ne successe.