Opere (Lorenzo de' Medici)/XIV. Simposio ovvero i beoni/Capitolo V.
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CAPITOLO V
Come sparvier, ch’è posto in alto a getto
e vede sotto i can che cercon forte,
sta di volar a prescersi in assetto;
tal del mio duca appunto era la sorte,
aspettando al partir la mia parola,5
parendogli aver forse troppe scorte.
E disse a me: — Il tempo fugge e vola:
e colui non è preso a gnun lacciuolo,
che non è giunto e preso per la gola.
S’io t’ho a mostrare il resto dello stuolo,10
staremo tu ed io troppo a disagio;
né basterebbe a questo un giorno solo.
Ma io scorgo da lungi ser Nastagio,
che ti potrá mostrar lui questo resto:
ma, per farmi dispetto, e’ viene adagio.15
Deh! vienne, ser Nastagio, vienne presto! —
E lui, che intese ’l tratto, guarda e ride;
e disse: — O Bartol, che vorrá dir questo?
— Ser Nastagio, lo star qui piú m’uccide.
Deh! mostrate a costui di questa gente, — 20
e vanne via, come piú presso il vide.
Io fui per forza a questo paziente;
e dissi: — Ser Nastagio, i’ son qui nuovo;
e sanza voi son poco, anzi niente. —
Ed egli a me: — Nessuna cosa trovo25
che sia conforme piú a mia natura,
quanto se di piacere ad altri pruovo.
Innanzi ch’io uscissi delle mura,
in modo tal mi son ben provveduto
ch’io posso un pezzo star teco alla dura. — 30
E nel parlar e’ mi venne veduto
duo torri; ma nel mover che faciéno,
vidi ch’io ero inver poco avveduto.
Volsimi al duca d’ammirazion pieno,
e dissi: — Io credo in qua venghi la porta,35
non so se animali o uomin siéno. —
Disse ’l mio duca a me: — Or ti conforta;
perch’e’ sien grandi, e’ non son da temere,
perché non son brigata molto accorta.
Quel butterato si chiama Uliviere;40
e l’altro e il nostro Appollon Baldovino;
dissimil come grandi, eccetto al bere. —
E come l’un di lor fu piú vicino,
disse ’l mio duca: — O caro Appollon mio,
férmati, ché se’ stracco pel cammino:45
attienti questa volta al parer mio. —
E lui rispose gargagliando in modo
che intender nol potemmo il sere ed io.
E, mentre che di lor vista mi godo,
quel primo si spurgò sí forte un tratto50
e con tanta abbondanza, che ancor l’odo.
Disse’ l mio duca: — Ve’ quel ch’egli ha fatto,
or ch’egli ha sete; e però pensar déi
quel che fará, se berrá qualche tratto.
I sua non son frullin, ma giubilei:55
e sa’ tu che per ridere o parlare
non perde tempo; e giá pruova ne fei. —
Odi, lettor: non ti maravigliare,
s’io dico quel che avvenne con timore;
che sare’ me’ tacer che ritrattare.60
Come fu giunto in terra quell’umore
del fiero sputo, nell’arido smalto
unissi insieme l’umido e ’l calore:
e poi quella virtú che vien dall’alto
gli diede spirto, e nacquene un ranocchio,65
e innanzi agli occhi nostri prese un salto.
Come Ulivier gli pose addosso l’occhio,
disse: — Io ne debbo avere il corpo pieno,
ché gorgogliar lo sento. — Or ve’ capocchio!
Poco con noi quelle due ombre stiéno:70
ripigliando a gran passi la lor via,
sparir degli occhi in men che in un baleno.
Mostrommi il duca mio un che venía;
ed io, come gli vidi il calamaio,
dissi: — E’ convien che questo notaio sia. — 75
Ed egli a me: — Come di’, è notaio;
s’egli sta a desco molle a suo contento,
se non è ebro, io non ne vo’ danaio.
E’ fu rogato giá del testamento
che fece il Rosso a Ciprian di Cacio,80
benché non era in suo buon sentimento. —
Poi lo chiamava a sé, e diegli un bacio,
e disse: — Ser Domenico mio bello,
piú caro a me che non è al topo il cacio;
tener non vi vo’ piú, però che quello85
disio che vi fa ir veloce e presto
so vi consuma, mentre vi favello. —
Partí sanza dir altro, detto questo.
Ed eccoti venir cinque ad un giogo:
un di lor parla sempre, e cheti il resto.90
Come, tornando da pastura al truogo,
corrono i porci per la pappolata,
cosí costor per ritrovarsi al luogo.
Quando piú presso a noi fu la brigata,
quel che parlava disse: — Dio v’aiuti: — 95
e ’l ser gli fece una grassa abbracciata.
Ecco giá gli altri al par di noi venuti,
e volevan parlar; ma non gli lascia
quel che avea dato a noi primi saluti.
Onde ’l mio ser per le risa sgangascia:100
dissemi nell’orecchio: — Questo è Strozzo;
in corpo favellò, non dico in fascia:
quando gli fussi ben il capo mozzo,
parlerebbe quel capo sanza il busto:
ciascuno stracca, ond’io con lui non cozzo.105
E per parlare e’ non li manca il gusto:
ma bene ispesso le parole immolla,
e questo ti confesso, ché gli è giusto.
Guarti, guarti, bel fiume di Terzolla,
che tra ’l bere e ’l parlar, che fa costui,110
secco sarai, come di luglio zolla.
Quel che tu vedi, ch’è allato a lui,
sappi che, come tu, e’ non bee vino,
ma e’ lo tracanna e manda a’ luoghi bui;
per soprannome è detto il Bellondino,115
il Citto e ’l Tornaquinci e ’l vil Zanchina:
e vanno a ritrovar Giovan Giuntino.
Questi son tutti ceci di cucina,
perch’e’ son cotti sempre ad un bollore;
benché dichin d’aver la medicina.120
Vengon spesso tra loro in tal furore,
che v’è gran carestia di chi divida:
poi non è nulla, passato il calore.
Io non mi maraviglio che tu rida: —
diss’egli a me. E poi: — Addio, addio — 125
diceva il parlator che fa lor guida.
Lui parlando partissi: e ’l duca ed io
restammo come sordi in su quel filo;
come color che stanno al loco rio,
lá dove cade il gran fiume del Nilo.130