Opere (Lorenzo de' Medici)/XIV. Simposio ovvero i beoni/Capitolo II.
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CAPITOLO II
Parte da riso e parte da vergogna,
per quel vedevo e udivo, occupato
mi stavo quasi a guisa d’uom che sogna;
quando mi sopraggiunse qui dallato
un che per troppo bere era giá fioco;5
conobbil presto, perch’era sciancato.
Allor mi volsi e dissi: — Ferma un poco,
o tu che vai veloce piú che pardo;
férmati alquanto meco in questo loco. —
E lui fermò il suo passo e fece tardo,10
come caval che punto sia restio:
ond’io a lui: — Ben venga, Adovardo. —
E lui: — Giá Adovardo non son io,
ma son la sete; piú singular cosa,
che data sia agli uomini da Dio;15
piú cara, eletta, degna e preziosa.
Ed or qui nasce una sottil dispúta,
ed un bel dubbio in questo dir si posa.
Se ’l ber scaccia la sete, ch’è tenuta
sí dolce cosa: adunque il bere è male.20
Ma in questo modo poi ell’è soluta.
Mai non si sazia sete naturale
come la mia; anzi piú si raccende,
quanto piú beo, come beessi sale;
e come Antèo le sua forze reprende25
cadendo in terra, come si favella,
la sete mia dal ber piú sete prende.
E, perché l’acqua della feminella
spegne la sete, per giucar piú netto
acqua non beo per non gustar di quella.30
Lasciamo andare: in questo è il mio diletto,
pel qual contento son, lieto e giocondo,
ch’egli è il mio sommo ben solo e perfetto.
E quando non sarò piú sitibondo,
daretemi d’un mazzo in sulla testa,35
se manca quel per ch’io son visso al mondo. —
A pena udir potéssi da lui questa
parola, ch’esser solea sí feroce;
e Bartol cominciò, come lui resta:
— Lasso! dove lasciato hai tu la voce? — 40
Lui soggiunse a fatica: — A San Giovanni
l’esser suto rettor tanto mi nuoce.
Chi si potrá tener, che non tracanni
di quei trebbiani? E di quel ch’io ho fatto
non me ne pento, benché in questi affanni.45
Poca ve ne trovai, e men n’ho tratto:
e, s’io morissi ben, non me ne pento;
non me ne pento, dico, un altro tratto.
Morir nell’arte mia io son contento,
ché un bel morir tutta la vita onora. — 50
Poi piú non disse, e vanne come il vento.
Un altro drieto a lui conobbi allora,
che par che dello andar da questo appari;
ché, se colui ne bee, questo divora;
litiginoso e’ capei bianchi e rari.55
A lui mi volsi e dissi: — O Grassellino
che se’ l’onor della casa Adimari,
tírati a tal viaggio amor divino? —
Ed egli a me: — Non aver maraviglia,
perch’io farei molto maggior cammino:60
un passo mi sarebbe cento miglia;
ogni fatica è spesa ben per questo. —
Piú non disse, e seguí l’altra famiglia.
Ond’io: — O Bartolin, riguardiam presto:
dimmi chi è costui e di qual gente,65
a cui par che l’andar sia sí molesto? —
Ed egli a me: — Costui è mio parente:
non conosci tu Papi? Or ve’ che ride;
guarda come ne viene allegramente.
Costui pur sé ed un compagno uccide:70
e colui che vien drieto alle costiere
e la palandra per ir ratto intride,
noi siam d’accordo dargli le bandiere
come maestro ver dell’arte nostra:
questo se gli convien, ch’è cavaliere.75
Giá dilettossi ed ebbe onore in giostra:
egli è il tuo Pandolfin, milite degno;
or la sua gagliardia al ber dimostra. —
Io feci onore e riverenzia al segno,
cavandomi di testa la berretta:80
e lui passò come spalmato legno.
Ed eccoti venire un molto in fretta,
sanza niente in testa: pel calore
non porta né cappuccio né berretta.
— Chi è costui, che vien con tal furore,85
che sí ratto ne va, che par che trotte? —
Ed egli: — È Anton Martelli al tuo onore.
Ve’ gote rosse e labra asciutte e cotte:
il suo naso spugnoso e pagonazzo,
non cura fiaschi, carratelli o botte.90
Non ti ricorda del grande schiamazzo
ch’e’ fece un tratto per la fiera a Prato,
quando tolto gli fu di starne un mazzo?
Chi gli togliesse la roba e lo stato,
sappia che la metá non se ne cruccia,95
che quando simil cose gli è furato.
— Chi è costui che par ebro, bertuccia,
che impaniato ha l’un e l’altro occhiolino? —
Ed egli a me: — Gli è pur di quella buccia:
questo è di Banco il nostro Simoncino,100
che cominciò giá per buffoneria,
or gnene dá da ritto e da mancino;
piace in modo a costui la malvagía
e ritrovarsi in gozzoviglia e ’n tresca,
che n’ha lasciato giá la senseria.105
— Chi è colui che in mano ha quella pèsca
e per piacer talor sí se la fiuta,
benché naso non ha donde odor esca?
— Quel che tu di’, è sarto, detto il Fiuta,
che bere’ sol col naso una vendemmia,110
sia che si vuol, ché nulla non rifiuta.
Al paese nostro è una bestemmia
la sete che questo ha nelle mascella:
e sai che d’ogni cosa ène vendemmia.
Quando beúto egli ha, tanto favella,115
che viene in Odio a chiunche intorno l’ode:
tanto ogni sua parola è pronta e bella.
S’avvien che questo al Ponte oggi s’approde,
credo che a ber fará sí gran procaccio,
che convien ch’al tornar un baril frode.120
Lascial cogli altri andar questo porcaccio:
egli è con lui del Candiotto il Tegghia;
tanto questo ama che lo mena a braccio,
e bere’ quel, ch’egli ha in bottega, a vegghia. —