Opere (Lorenzo de' Medici)/X. Altercazione/Capitolo I.

I. [In cui si disputa della felicitá secondo la dottrina di Platone.]

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I. [In cui si disputa della felicitá secondo la dottrina di Platone.]
X. Altercazione X. Altercazione - Capitolo II.
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CAPITOLO I

[In cui si disputa della felicitá secondo la dottrina di Platone.]


     Da piú dolce pensier tirato e scorto,
fuggito avea l’aspra civil tempesta
per ridur l’alma in piú tranquillo porto.
     Cosí tradotto il cor da quella a questa
libera vita, placida e sicura,5
ch’è quel poco del ben, che al mondo resta;
     e per levar da mia fragil natura
quel peso che a salir l’aggrava e lassa,
lassai il bel cerchio delle patrie mura.
     E, pervenuto in parte ombrosa e bassa,10
amena valle che quel monte adombra,
che ’l vecchio nome per etá non lassa;
     lá dove un verde lauro facev’ombra,
alla radice quasi del bel monte
m’assisi, e ’l cor d’ogni pensier si sgombra.15
     Un fresco, dolce, chiar, nitido fonte
ivi surgea dal mio sinistro fianco
rigando un prato innanzi alla mia fronte.
     Quivi era d’ogni fior vermiglio e bianco
l’erbetta verde; ed infra sí bei fiori20
riposai il corpo fastidito e stanco.
     Eranvi tanti vari e dolci odori,
quanti non credo la Fenice aduna,
quando sente gli estremi suoi dolori.

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     Credo che mai né tempestosa o bruna25
sia l’aria in loco sí lieto ed adorno,
né ciel vi possa nuocere o fortuna.
     Cosí stando soletto al bel soggiorno
della mia propria compagnia contento
e sol co’ dolci miei pensieri intorno,30
     contemplava quel loco: e in quello i’ sento
sonare una zampogna dolcemente,
tal che del sonator balla l’armento.
     Alla dolce ombra, a quel licor corrente
venia per meriggiare, e, me veggendo,35
nuovo stupor gli venne nella mente.
     Fermossi alquanto, e poi pur riprendendo
il perso ardir, con pastoral saluto
mi salutò; poi cominciò, dicendo:
     — Dimmi, per qual cagion sei qui venuto?40
perché teatri e gran palagi e templi
lasci, e l’aspro sentier t’e piú piaciuto?
     Deh dimmi, in questi boschi or che contempli?
le pompe, le ricchezze e le delizie
forse vuoi prezzar piú pe’ nostri esempli? — 45
     Ed io a lui: — Io non so qual divizie
e quali onor sien piú suavi e dulci
che questi, fuor delle civil malizie.
     Tra voi lieti pastor, tra voi bubulci
odio non regna alcuno o ria perfidia,50
né nasce ambizion per questi sulci.
     Il ben qui si possiede sanza invidia;
vostra avarizia ha piccola radice,
contenti state nella lieta accidia.
     Qui una per un’altra non si dice,55
né è la lingua al proprio cor contraria,
ché quel, ch’oggi il fa meglio, è piú felice.
     Né credo ch’egli avvenga in sí pur’aria
che ’l cor sospiri e fuor la bocca rida,
ché piú saggio è chi ’l ver piú cuopre e varia.60

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     Chi in semplice bontate oggi s’affida,
stolto s’appella, e quel che ha piú malizia
piú saggio pare a chi ’n quel cerchio annida.
     Con l’util si misura ogni amicizia:
or pensa che dolcezza è in quello amore,65
il qual fortuna intepidisce o vizia!
     Come esser può quieto mai quel core,
il qual cupiditate affligge e muove
o a troppa speranza o a timore?
     Ma voi vi state in questi monti, dove70
pensier non regna perturbato o rio,
né ’l cor pendente sta per cose nuove.
     La vostra sete spegne un fresco rio,
la fame i dolci frutti, e misurate
con la natura ogni vostro disio.75
     Il letto è qualche fronde nella state,
il secco fien sotto le capannelle
il verno, per fuggir acque e brinate.
     Le vesti vostre non son come quelle
cerche in paesi stran per le salse onde:80
contenti state alla velluta pelle.
     Oh quanto è dolce un sonno in queste fronde
non rotto da pensier, ma l’onda alpestre
col mormorio al tuo russar risponde!
     Credo che spesso ogni Ninfa silvestre85
convenga al fonte tanto chiaro e bello,
con piú dolce armonia che la terrestre.
     Al dolce canto lor suave e snello,
al suon della zampogna, a’ versi vostri
risponde Filomena o altro uccello.90
     Se avvien che un tauro con un altro giostri,
credo non manco al cuor porga diletto
che i feri ludi de’ teatri nostri.
     E tu, giudicatore, al piú perfetto
doni verde corona; ed in vergogna95
si resta l’altro misero e in dispetto.

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     Felice è quel che quanto gli bisogna
tanto disia, e non quello a cui manca
ciò che la insaziabil mente agogna.
     Nostra infinita voglia mai non manca,100
ma cresce, e nel suo crescer piú tormenta;
a quel che piú disia piú sempre manca.
     Colui che di quel c’ha, sol si contenta,
ricco mi pare; e non quel che piú prezza
ciò che non ha, che quel che suo diventa.105
     Quieta povertá è gran ricchezza,
pur che col necessario non contenda;
ricco e non ricco è l’uom, come s’avvezza.
     E non so come alcun biasmi o riprenda
la mente che contenta è di se stessa,110
quello esaltando che d’altrui dipenda.
     La vostra vita, pastor, mi par essa,
se alcuna se ne trova al mondo errante,
che all’umana quiete piú s’appressa. —
     Non fu il pastor all’udir piú costante;115
ma vòlti gli occhi alcuna volta in giro
fe’ di voler parlar nuovo sembiante.
     Poi cominciò con cordial sospiro:
— Non so che error chiamar lieta ti face
tal vita, vita no, anzi un martiro.120
     Né so per qual cagion tanto ti piace
quel che tu laudi, e poi laudato fuggi,
e come tu non segui tanta pace.
     Deh! perché il ver con la menzogna aduggi?
e, se ver parti, segui questo vero,125
che sí brami in parole, e te ne struggi.
     Ma gran fatto è dall’opera al pensiero,
e tal sentier par bello in prima vista,
che al camminare è poi spinoso e fero.
     Qual cosa questaFonte/commento: Edimburgo, 1912 vita non fa trista?130
Al freddo, al caldo stiam come animali;
e questa è la dolcezza che s’acquista.

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     Il verno a’ tempi rigidi e nivali
talora ad ogni pel di nostra vesta
veder puossi cristalli glaciali.135
     Talora un vento sí crudel ne infesta,
che per porsi al povento dopo un masso,
non cessa il vento o la crudel tempesta.
     Le piume sono il terren duro o il sasso;
i cibi quei delle silvestre fere140
per confortarne, quando altri è piú lasso.
     Non manco mi vedresti tu dolere,
se lupo via ne porti un de’ nostri agni,
che quando tu perdessi un grande avere.
     Né piú tu del gran danno tuo ti lagni,145
che io del poco; ché a proporzione
i piccoli a me son come a te i magni.
     In minor cose ha in me dominazione
Fortuna certo; e se quel poco ha a sdegno,
piú duole a me sanza comparazione.150
     S’io perdo un vaso di terra o di legno,
non manco mi dolgo io del vil lavoro,
che se tu ’l perdi d’òr, che par piú degno.
     La differenza, ch’è tra ’l legno e l’oro,
non fa natura, quanto noi facciamo155
per estimar l’un vil, l’altro decoro.
     Però se ’l vaso fittile mio amo
quanto tu l’aureo, egualmente a me nuoce
Fortuna, perché egualmente lo bramo.
     Ma credo appellar possa ad una voce160
Fortuna il mondo rigida e inimica,
perché pende ciascun nella sua croce. —
     — Benché pastor, sentenzia odo ch’è antica,
ciascun mai contentarsi di sua vita,
e par lieta e felice l’altrui dica;165
     i’ mi starò dove il destin m’invita,
tu dove chiama te la stella tua,
ove la sorte sua ciaschedun cita,
     mal contento ciascun, non sol noi dua. —