Rime (Guittone d'Arezzo)/O dolce terra aretina
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XXXIII
Lamenta la decadenza di Arezzo ed ammonisce i concittadini
a porre sollecitamente rimedio al male.
Ahi, dolze terra aretina,
pianto m’aduce e dolore
(e ben chi non piange ha dur core
o ver che mattezza el dimina),
5membrando ch’eri di ciascun delizia,
arca d’onni divizia,
sovrapiena arna di mel terren tutto,
orto d’onne disdutto,
zambra di poso e d’agio,
10refettoro e palagio
a privati e a strani d’onne savore,
d’ardir gran miradore,
forma di cortesia e di piagenza,
e di gente accoglienza,
15norma di cavaler, de donne assempro.
Oh, quando mai mi tempro
di pianto de sospiri e de lamento,
poi d’onne ben te veggio
in mal ch’aduce peggio,
20sí che mi fai temer consumamento?
Or è di caro piena l’arca,
l’arna di tosco e di fele,
la corte di pianto crudele,
la zambra d’angostia è tracarca,
25lo refettoro ai boni ha savor pravi
e a’ fellon soavi,
e specchio e mirador d’onni vilezza,
di ciascuna laidezza
villana e brutta e dispiacevel forma,
30non di cavalier norma,
ma di ladroni, e non di donne assempro,
ma d’altro: ove mi tempro?
Sí hai, rea gente, el bon fatto malvagio;
unde al corpo hai mesagio,
35a l’alma pena, e merti eternal morte;
ché Dio t’ha in ira forte:
a te medesma e a ciascun se’ noia;
ed a fermato crede
ch’ai figliuoi tuoi procede
40sí che ver lor trestizia è la tua gioia.
Ahi como mal, mala gente,
de tutto ben sperditrice,
vi stette sí dolce notrice
e antico tanto valente,
45che di ben tutto la trovaste piena!
Secca avete la vena;
l’antico vostro acquistò l’onor tutto,
voi l’avete destrutto:
voi, lupo ispergitore,
50sí com’esso pastore.
Ma se pro torna a danno ed onor onta,
la perta cui si conta
pur vostr’è, Artin felloni e forsennati.
Ahi, che non foste nati
55di quelli, iniqui schiavi; e vostra terra
fosse in alcuna serra
de le grande alpi, che si trovan loco;
e lá poria pugnare
vostro feroce affare
60orsi, leoni, dragon pien di foco.
O gente iniqua e crudele,
superbia saver sí te tolle,
e tanto venir fa te folle,
venen t’ha savor piú che mele.
65Ora te sbenda ormai e mira u’ sedi,
e poi te volli e vedi
dietro da te lo loco ove sedesti;
e dove sederesti,
fossete retta ben, hai a pensare.
70Ahi, che guai hai che trare,
ciascun se ’n sé ben pensa ed in comono,
che onor, che pro, che bono
che per amici e che per te n’hai preso!
Ché s’hae altrui offeso,
75ed altri a te; ché mal né ben for merto
non fu né será certo,
perché saggio om, che gran vol, gran sementa;
ché giá non po sperare
de mal ben alcun trare,
80né di ben mal, né Dio, credo, il consenta.
Iniqui, aggiate merzede
dei figliuoi vostri e di voi;
ché mal l’averebbe d’altrui
chi se medesimo decede;
85e se vicina né divina amanza
no mette in voi pietanza,
el fatto vostro estesso almen la i metta;
e s’alcun ben deletta
lo core vostro, or lo mettete avante;
90ché non con sol sembiante
né con parlare in mal far vo metteste,
ma con quanto poteste.
Degn’è donque che ben poder forziate,
né del ben non dottiate,
95poiché nel mal metteste ogni ardimento;
ché senza alcun tormento
non torna a guerigion gran malatia,
e chi accatta caro
lo mal, non certo avaro
100ad acquistar lo bene essere dia.
Non corra l’omo a cui conven gir tardi,
né quei pur pensi e guardi
a cui tutt’avaccianza aver bisogna;
ché ’n un punto se slogna
105e fugge tempo sí, che mai non riede.
Ferma tu donque el piede,
ché, s’ello te trascorre ed ora cadi,
non atender mai vadi;
né mai dottare alcun tempo cadere,
110se or te sai tenere.
Adonqua onni tuo fatto altro abandona,
e sol pensa e ragiona
e fa come ciò meni a compimento;
ché, se bene ciò fai,
115onne tuo fatto fai;
se no, ciascun tuo ben va in perdimento.
Ahi, com’è folle quei provatamente
che dotta maggiormente
perder altrui che sé, né ’l suo non face,
120ma che quant’ha desface
a pro de tal, onde non solo ha grato.
Ed è folle el malato,
che lo dolor de l’enfertá sua forte
e temenza di morte
125sostene, avante che sostener voglia
de medicina doglia;
e foll’è quei che s’abandona e grida:
Ah, Dio segnore, aida!
E folle anch’è chi mal mette ed ha messo
130nel suo vicin prossimano
per om non stante e strano;
e foll’è chi mal prova e torna ad esso.