Novelle lombarde (Cantù)/Il Ritorno
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IL RITORNO
— È desso?
— Ah no!
— Non si vede ancora nulla di lontano?
— Ancora nulla!
— Deh! perchè tarda così? La diligenza avrebbe ad essere giunta fino da mezzodì alla terra vicina: in quattro passi egli poteva esser qui: ed ecco già scende la sera.... Come pajono, lunghe lunghe queste ore!»
Così un buon vecchio esclamava, interrogando una leggiadra giovinetta, che, con anzietà non certo minore della sua, ad ogni tratto facevasi alla finestra, scorreva coll’occhio la patente pianura, lo affissava alquanto sul punto più remoto, i cui oggetti si venivano dileguando nell’incerto crepuscolo: indi in atto di scontenta, dimenando il capo, e mettendo un profondo sospiro, se ne ritraeva per dire al vecchio, impensierito anch’egli: — Nol si vede ancora». Poi un momento tornava ad affacciarsi appresso, a guardare, a scuotere il capo, e sospirare.
Finalmente una volta mette uno strillo di consolazione, batte palma a palma, e tripudiando: — È qui, è lui!» e porgendo la mano al vecchio, che parso le sarebbe lento a seguirla quand’anche avesse avuto l’ale, s’avvia incontro a Giulio che ritorna.
— O figliuol mio! — cugino mio!» esclamarono il vecchio e la fanciulla, appena gli si furono avvicinati: ed il padre si gettò al collo di esso, stringendolo, carrezzandolo. — Quanto aspettarti, mio Giulio! Quanto invocarti! Due anni interi! Ah! ma è finito: ora non ti partir più da noi, no, più: rimani con noi a consolare i vecchi miei giorni. Anche la Felicia, oh come ti desiderò!» E additava la fanciulla, che, fatta ancor più bella dall’esuberanza del contento, coll’una mano stringeva la destra del cugino, coll’altra gli si appoggiava alla spalla, e sebbene la presenza dello zio la rattenesse dal tutta mostrargli la vivezza del suo affetto, gliene dava però segno fissandolo con due occhi ove imperlavasi la stilla della consolazione, che tratto tratto scendeva silenziosa per la guancia imporporata.
Giulio però a quelle carezze rimaneva quasi trasognato: ingegnavasi di ricambiar tanto amore, ma l’occhio suo si fissava incantato; scontrafatti aveva i lineamenti; l’abito scomposto e insudiciato; e il riso, a cui egli procurava comporre le labbra, somigliava piuttosto ad un ringhio feroce.
— O mio Dio! che cos’hai Giulio?» lo richiese il padre tosto che la gioja lasciò luogo alla riflessione. «T’è occorso nulla di male? sei dato ne’ malandrini? Vieni.... entra.... siedi... raccontami».
Giulio faceva opera d’acquetarne l’ansietà; che non era nulla; e alla Felicia, che aveva vôlto al pianto il viso, dianzi così angelicamente sereno, — Felicia (diceva) non turbatevi: rimanete tranquilla; non è nulla, nulla affatto»: e sforsavasi d’accordare l’atto del volto alla cortesia delle parole.
— Ella (ripigliava il padre) ti vuol bene ancora, oh si davvero; non aveva che te nel cuore, te sulle labbra: contava i giorni, fin le ore che mancavano al tuo tornare, ed ora sarete contenti. Vi ricorda quando bambini di dieci anni, io e il mio povero fratello vi abbiam fatti impromettere l’uno all’altro? con che tripudio faceste le simulate nozze? Ora le compirete da vero: vi sposerete, e vivremo tutti insieme nel colmo d’ogni felicità».
Giulio ascoltava col mento proteso, la bocca semiaperta, sporgenti e stravolti gli occhi, da cui gocciavano grosse lagrime ardenti: e anelando sporgeva ad ora ad ora la lingua come per umettare le arse labbra, per raccorre il refrigerio dell’aria. E la Felicia: — Voi sarete riscaldato dalla via, n’è vero? Che io vi porga una tazza d’acqua diaccia?»
E senza aspettarne l’assenso, correva attingerla di sua mano, e gliela presentava. Giulio balzò di scatto in piedi, sbuffante, infuriato; d’un pugno rovesciò l’offertagli bevanda, e a precipizio lanciandosi fuori della porta, corse nel giardino, e si cacciò in un folto boschetto.
Tra meraviglia e spavento rimasero il padre e la cugina, mirandosi l’un l’altro senza far motto: poi d’accordo mossero verso il giardino anch’essi, guardando, cercando, chiamando — Giulio! Giulio!» Nessuno rispondeva: ma una ventata portò verso loro un urlo, un urlo che li fece entrambi raccapricciare.
— Cos’è, Felicia? Hai tu sentito?
— Sì: pare un cane che latri.
— In questi calori ne vanno attorno di arrabbiati e se n’è veduto ne’ contorni. Che ne fosse qualcuno qui allato!»
Ma la ragazza non dava nè risposta nè ascolto, assorta com’era nel pensiero di Giulio, e non sapendo spiegarne a sè medesima lo strano contegno.
Poco stante egli ricomparve, in vista più pacato, strinse la mano di suo padre: fece atto di volersela accostare alla bocca, poi ritraendola, se la premette sul cuore e l’inondò di molte lagrime. — O padre (diceva), scusate; v’ho causato disgusto, eh? perdonatemi. Non è niente, sapete. Ho qualche cosa pel capo: non mi sento affatto bene.
— Non ti senti bene, eh? me n’accorsi ben io. Sai che? buttati a letto: domattina tutto sarà passato.
— Volete (soggiungeva la ragazza) che mandiamo pel medico?
— Pel medico?» replicava il giovane fissandola con una convulsione delle labbra che pareva un sorriso. «Pel medico? povera Felicia.... grazie: no.... Il medico? non serve .... Non è male che il medico guarisce», e sospirava, e le lanciava un’occhiata ove all’affetto mescevasi a qualcosa di feroce, di disperato.
— Ebbene, va e ti corica», seguitava il padre; «e domani, oh quante cose a dirti, quante a udirne! Tu mi racconterai le avventure di questi due anni. Te ne saranno pure successe eh? Avrai così veduto delle novità! Ah, l’Italia! è pur bella, pur deliziosa a vedersi! E tu l’hai trascorsa tutta tutta. Sei arrivato mai anche in Sicilia?
— Sì, caro padre, sì, anche in Sicilia.
— E il mare? che cosa stupenda deve essere il mare! Quella interminata pianura di acqua, come palpitanti, e d’un colore così tra l’azzurro e il verde...
— Padre, padre», l’interrompeva il giovane con voce simile al grido d’un atterrito. «A domani queste cose».
— Sì, bene, a domani. E allora ti condurrò a mostrarti le opere che ho terminate nelle nostre campagne. Ho ridotto un bellissimo novale: spianai una vasta prateria: da un lato un eterno filare di pioppi, dall’altra i salici che ombreggiano il più ricco corso d’acqua che si veda a molte miglia qui presso...
— O padre! Addio, addio!» saltava su il giovane; e stringendogli ancora con violenza la mano, a furia spingevasi su per la scala, imboccava l’andito verso la camera sua.... Ma prima che vi giungesse, ecco una gentil voce sommessa: — Giulio! Giulio!»
Si rivolge; è la cugina, che lesta come un cavriuolo corre verso di lui, nè più rattenuta nell’effusione dell’amore, — Ingrato (gli dice) ti basterebbe l’animo di metterti a letto prima d’avermi salutata in disparte?» E abbracciandolo, — O Giulio (continuava), non sei tu il mio cuore? non sono io la tua Felicia? Di’, sei tu ancora quel desso? Oh! io mi sono sempre conservata per te.... per te solo il mio amore. Ti sovvieni a quel cipresso, laggiù in fondo al giardino, la sera avanti il tuo partire.... una sera bella, come questa, così serena, così ventilata. Tu sedevi su quel cespo, ed io — io sulle tue ginocchia; e il tuo braccio mi cingeva il collo così. Che mi giurasti tu allora? — Di’, te ne ricordi?
Sì, Felicia, sì, me ne ricordo», rispondeva il giovane con caldi e rotti sospiri.
E la fanciulla, nel pieno della contentezza, la contentezza d’un giovane cuore che dopo lunga assenza ritrova alfine quell’altro cuore che l’intende, che gli risponde, seguitava: — In questi due anni, che mi parvero un’eternità, non volse giorno, qualunque tempo facesse, che a quella pianta io non tornassi: e là seduta, assorta, mi figurava sempre quella sera, quella sera beata: ma tu non v’eri più. Pure colà io pensava al mio Giulio... Sebbene! ah tutto il dì, tutta la notte, dappertutto io non faceva che pensare a te, che sospirare il tuo ritorno, che immaginarmi la consolazione di questo giorno. Oh questo giorno, quest’ora val ben due anni di spasimi, di vedovanza! E le lettere che mi scrivesti — quelle lettere, espressione dell’anima tua candida e infervorata, sai dove sono? guarda». E spontandosi il gorgierino d’in sul petto, le traeva baciandole ed esclamando: — Oh care quelle parole?» Indi riponendole continuava: — Qui sono, qui sempre sono state, a sentir uno ad uno tutti i palpiti del mio cuore: nè le tolsi mai se non quando le leggeva e rileggeva, baciava e ribaciava, e le inondavo con lagrime di dolore, di desiderio, di speranza. E tu, Giulio, e tu ti rammentavi di me?
— Se me ne rammentavo? O quanto!» Così il garzone, alzando al cielo le pupille.
— Ebbene», proseguiva l’amorosa, lieta di effondere una volta la piena degli affetti da due anni contenuta. «Ebbene, ora saremo beati.
— Beati!» ripeteva egli in cupo tono.
— Sì, beati!» riprendeva essa. «Che mancherà più a noi? Lo zio non vede quell’ora che ci sposiamo! tante volte me lo ripetè. Tu, oh tu sarai il mio Giulio, io sarò la tua Felicia, tua per sempre, per sempre; e potrò dire a tutti quanto ti amo; o potrò mostrare alle mie compagne qual bene possiedo. E quando avremo de’ figliuoli, che somiglieranno a te... Ma perchè tu mi fissi così? Giulio, cos’hai? t’ho io forse oltraggiato? In che ti spiacqui? ma se non pensai, se non bramai che d’esser degna di te. Di’, mi ami? mi ami proprio come prima?
— E come non ti amerei, angelo de’ miei giorni? prorompeva l’infelice; poi coprendosi il volto colle mani: «Povera Felicia!»
— Dunque (soggiungeva essa) perchè mi chiami povera? Se mi vuoi bene tu, non son io la più fortunata delle creature? perchè non m’abbracci? perchè non mi baci? Un bacio, Giulio, alla tua promessa; un bacio...»
E avvinghiandosi al collo di lui, alzavasi sulla punta de’ piedi per raggiungere colle sue le labbra dell’amato. Ma egli, interponendo la mano fra il suo volto e la bocca della donzella, si svelse da quegli amplessi, e respingendola da sè, cacciossi in camera impetuosamente, e vi si rinserrò.
Ributtata a quel modo, la povera Felicia, tutta confusa, nè comprendendone la ragione, scoppiò in un dirotto pianto, appoggiandosi alla parete, e rimanendovi a lungo, costernata o come tolta di sè. La riscosse una voce, un rumore: pian piano accostossi, e all’uscio dell’amato stette in ascolto: intese un gemito, un urlo, ma fioco, lontano, come d’alcuno che avesse il capo sepolto sotto lo stramazzo. Impaurita e raccomandando al cielo sè stessa e lui, tornossi alla sua cameretta, e avendo ogni pensiero in quel ch’era accaduto, per tutta notte non velò gli occhi.
Colla prima alba fu in piedi, fu nel corridojo, ma non osando entrar nella camera di Giulio, origliava alla serratura, nè udendo uno zitto, consolavasi pensando — Egli dorme». Voleva togliersi di là per badare alle casalinghe faccende, ma non le dava il cuore, e tornava a mettersi, in orecchi a quell’uscio: poi guardava nella finestra, tardandole che crescesse il giorno, e così venisse l’ora di riveder quello, in cui solo viveva da tanto tempo, quello che vedeva coronare colla maggior felicità i sospiri di lei.
Intanto sorse anche il padre, chiese di Giulio, ma non s’era visto ancora. Il sole avanzavasi, nè Giulio compariva. In pensiero essi traggono alla camera di lui, chiamano e non hanno risposta: aprono, non c’è alcuno: ma il letto, ma i mobili in iscompiglio qua e là dispersi i vestimenti, le lenzuola sbranate. — O Dio, che mai sarà? Si mettono alla cerca: e là, in fondo al giardino, a piè del conscio cipresso trovano il giovane disteso seminudo, tutto coperto di lividure e di sangue, che stringeva accanitamente le proprie dita fra i denti aspersi d’atra bava. Una morsicatura scopertagli nella coscia destra, chiarì come egli fosse morto idrofobo.
1836 |