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della porta, corse nel giardino, e si cacciò in un folto boschetto.
Tra meraviglia e spavento rimasero il padre e la cugina, mirandosi l’un l’altro senza far motto: poi d’accordo mossero verso il giardino anch’essi, guardando, cercando, chiamando — Giulio! Giulio!» Nessuno rispondeva: ma una ventata portò verso loro un urlo, un urlo che li fece entrambi raccapricciare.
— Cos’è, Felicia? Hai tu sentito?
— Sì: pare un cane che latri.
— In questi calori ne vanno attorno di arrabbiati e se n’è veduto ne’ contorni. Che ne fosse qualcuno qui allato!»
Ma la ragazza non dava nè risposta nè ascolto, assorta com’era nel pensiero di Giulio, e non sapendo spiegarne a sè medesima lo strano contegno.
Poco stante egli ricomparve, in vista più pacato, strinse la mano di suo padre: fece atto di volersela accostare alla bocca, poi ritraendola, se la premette sul cuore e l’inondò di molte lagrime. — O padre (diceva), scusate; v’ho causato disgusto, eh? perdonatemi. Non è niente, sapete. Ho qualche cosa pel capo: non mi sento affatto bene.
— Non ti senti bene, eh? me n’accorsi ben io. Sai che? buttati a letto: domattina tutto sarà passato.
— Volete (soggiungeva la ragazza) che mandiamo pel medico?
— Pel medico?« replicava il giovane fissandola con una convulsione delle labbra che pareva un sorriso. «Pel medico? povera Felicia.... grazie: no....