Novelle (Sercambi)/Novella LXXXIII

Novella LXXXIII

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LXXXIII


Giunti colla dilettevole novella a Benevento, là u’ la sera dimoronno a cena, et acciò che non si lassi parte del modo usato, com’ebero cenato il proposto comandò a’ cantarelli che sotto voce soave si canti alcuna canzonetta. Loro presti disseno:

«Amor, mira costei nuova nel bruno
e fà che ’l cuor di lei col mio sia uno.
Possa che morte tolto m’ha il signore
crudele in quel piacer ov’io disio
e mosse per pietà pietà amore,
deh, muova <te> per me ch’ognor sospiro,
con dir: ‘Non vo’ di giovana il martire,
ché per te il servo a cui il servir dé uno’».

Et andati a dormire, fine alla mattina di buona voglia dorminno. E come funno levati e veduto il Nostro Signore, <il proposto> rivoltosi a l’altore dicendoli che una novella dica fine che a Salerno saranno giunti, l’altore disse: «Volentieri direi una moralitá prima». Lo preposto contento, l’altore disse:

«Non fu crudele quella romana Tulla,
che su pel dosso al padre
montò col carro del morto marito;
né di Neron fu a rispetto nulla,
quando sparar la madre
fe’ viva per veder d’ond’era uscito,
quanto costui al crudel apetito

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che mostra a sé con dispregiare amore;
e per più suo dolore
non vuol che viva ma languendo mora,
acciò che vuol di sé udir lo stento,
tanto che giunga spento
d’ogni virtù della sua morte <a> l’ora.
Merzé non sa per sé chi ’mpetri in cielo
chi del tutto di sé fatto <è> ribello».

Dicendo: «Poi che in Salerno dobiamo andare, dove sono belle donne ma sono servigiali, io dirò:

DE CRUDELITATE MAXIMA

Come messer Stanghelino da Palò amazzò la moglie et un giovano che li trovò insieme in letto, e iiii figliuoli.

Innel tempo che messer Bernabò signoregiava gran parte della Lumbardia era uno cavalieri suo cortigiano nomato messer Stanghelino da Palò, il quale avendo d’una sua donna dal Fiesco nomata Elena iiii figliuoli, ii maschi e ii temine, il magiore de’ quali era d’età di anni sette; e stando il ditto messer Stanghelino con gran piacere colla ditta monna Elena, tenendosene contento quanto neuno altro gentiluomo di Lumbardia, amando questa sua donna sopra tutte le cose del mondo.

E come sempre la femina s’aprende al contrario, non potendo sostenere il bene che la ditta monna Elina avea, con atto di lusuria si diè ad amare uno giovano della terra sottoposto al ditto messer Stanghelino, intanto che non passando <molto tempo> la ditta monna Elena il suo apetito con quel giovano fornìo. E dimorando per tal maniera la ditta donna, non pensando <ciò che> per tal cagione ne dovea seguire (né anco non pensava che ’l marito di ciò acorger si dovesse), di continuo quel giovano si tenea.

Essendo alquanti mesi che messer Stanghelino non era innelle suoi parti stato, venendo a casa dove la donna sua trovar credea [p. 364 modifica]per prendersi con lei sollazzo, senza far sentir la sua venuta si trovò in casa; et andato alla camera, trovò la donna sua con quel giovano in su’ letto prendendosi piacere. E come messer Stanghelino vidde tal cosa, fu lo più tristo uomo diventato d’Italia, tanta malanconia al cuor li venne; e non potendo la rabbia del dolore sofferire, subito con uno coltello il ditto giovano uccise. E fatto confessare alla donna quanto tempo l’avea tenuto, ella per paura li disse da quattro mesi era con lei giaciuto. Messer Stanghelino dice: «Donna, tu m’hai fatto il più tristo uomo che mai fusse di mio parentado; e quine u’ io mi potea vantare e già me n’era vantato d’avere la più bella donna che persona di Lumbardia, et io trovo d’avere la magiore puttana che in Italia possa essere. Ma io ti pagherò di quella misura che hai pagato me».

E fatto venire davanti a sé li un fanciulli, dicendo: «Or vedi, meretrice, che hai fatto? Che fine a qui questi fanciulli ho tenuti che fussero miei figliuoli, ora per lo tuo vituperio tal credenza ho perduto e per miei non li vo’ riputare. E acciò che tu abbi del fallo commesso doppia pena, come ucisi colui che hai tenuto, così costoro in tua presenzia ucciderò!»; la donna dice: «Messer, tenete a certo li fanciulli esser vostri, e bene che io sia degna d’ogni male, vi prego che a cotesti fanciulli male non facciate, ché vostri sono!» Lo marito dice: «Donna, tu mi potresti assai dire, che mentre che questi fanciulli io <non> uccidesse, sempre arei innanti el vituperio che fatto m’hai. E però vo’ che tu n’abbi all’anima la pena per lo tuo malvagio fallo». La donna piangendo dicea: «Deh, messer, piacciavi a’ fanciulli vostri la vita salvare e me uccidete che degna ne sono!» Messer Stanghelino le disse: «Tu mi potresti dire assai, e però vo’ che senti di quel dolore che le tuoi pari meretrici meritano!» E prese la spada, a tutti e quattro fanciulli in presenzia della madre tagliò la testa e poi, non forbendola, alla moglie per lo petto diede e da l’altra parte la passò, e morta cadde. E come ebe ciò fatto, fece la donna e’ fanciulli in una fossa sotterrare, e quello giovano a’ cani lo diè a mangiare.

E partitosi da Palùe, in corte di messer Bernabò ritornò. E sapendo quello che fatto avea, li fu per messer Bernabò ditto perché almeno non avea campato li fanciulli. Rispuose le parole [p. 365 modifica]che alla moglie ditto avea. E non stante che fatto l’avesse, non fu però pregiato l’avere uccisi i figliuoli, ma la ragione assegnata fue assai buona cagione da consentirli quello avea fatto fusse stato il meglio che averli riserbati.

E per questo modo quella cattiva di Elena per le suoi cattività fe’ cattivi li suoi figliuoli e l’amante e sé.

Ex.º lxxxiii.