Novelle (Sercambi)/Novella CI

Novella CI

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Novella C Novella CII
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CI


La brigata giunt’a Ancona dove fu ben riceuta, e dandosi piacere fine ch’è l’ora del dormire, a cui lo preposto disse che di buon’ora ognuno si levasse. E così s’oservò, che levati la mattina, il preposto comandò a l’altore che una novella dica fine che saranno giunti a Sinigaglio. Al qual e’ disse: «Volentieri»; e rivoltosi alla brigata, disse: «A voi, omini di pogo acorgimento che più tosto credete alle false parole delle vostri mogli che a quello vedete, ad exemplo dirò una novella». Incominciando in questo modo, cioè:

DE SUBITA MALITIA IN MULIERE

<Di> Toccora servente in Spoleti.

Fu nel contado di Spoleti una donna nomata Toccora, nata assai di vil genti e maritata a uno lavoratore di terra nomato Orsuccio, il quale prendea diletto grandissimo, per avarizia, solo in lavorare; e quello era il suo sommo piacere. Toccora, che di natura era servente, con darsi piacere talora con uno e talora con un altro e in tale cose molto si dilettava, lassando al marito il pensieri del lavorare e darsi della fatica quanto portar ne potea. Toccora, che per avarizia non volea esser dannata, disposta a sparger delle suoi cose et anco di quelle che lo marito talora raunava, et in questo stava di continuo atenta a servire a chi ne domandasse; e questo modo la ditta Toccora tenea, che con più e più spessisime volte s’era con piacere trovata abracciata.

Et infra gli altri giovani che Toccora amava e con cui ella [p. 442 modifica]più di continuo si ritrovava, era uno nomato il Rughia, il quale per bella e grande massarizia che di sotto apiccata tenea le fu tale nome imposto; e spessisime volte Toccora con lui trovavasi.

Divenne che uno giorno Orsuccio tornando a casa e l’uscio trovando serrato, per una fessura dentro riguardando vidde Toccora abracciata con Rughia in su uno supidiano; il perché a Orsuccio tale atto dispiacendoli, con furia percosse l’uscio. Rughia, che ode la voce di Orsuccio, dubitando dice alla donna: «Noi siamo a mal partito!» Tuccora rilevatasi, aprendo uno uscio che dirieto alla casa era, e per una selva si fuggìa, Rughia dirieto a lei ne vae. Orsuccio, che prima ha veduto il modo che la moglie tenea e poi ne l’ha veduta andar’e il giovano dirieto, con furia l’uscio aprendo e con una lancia dirieto alla moglie et al giovano correndo ne fu ito. Rughia come giovano la donna passò.

La donna, che si vede il marito con furia venire dirieto, stimando delle suoi mani non poter campare, pensò con qualche scusa rafrenare la furia del marito. Orsuccio, ch’è di sopra giunto a Toccora, dice; «Ahi, meretrice cattiva, ora non potrai avere alcuna scusa di non confessare tu avermi fallito poi che co’ miei occhi ho veduto tu essere abracciata con uno giovano prendendovi piacere, e per più vituperio ora te ne fuggivi con lui! Ma mercé n’abbiano i miei piedi che t’hanno qui giunta, dove farai conto dell’opre tenute». Toccora dice: «Deh, marito mio, io ti prego che mi dichi la verità se meco in casa alcuna persona vedesti e poi se dirieto a me lo vedesti venire, però che se così fusse serè’ di bisogno che altro ti dicesse». Orsuccio dice: «Deh, meretrice malvagia, come, non viddi uno giovano che t’era a dosso e tùe lo tenei stretto abracciato, e come mi sentisti picchiare te ne fugivi via et il giovano ti venne dirieto e non l’ho potuto giungere? Ma te pur ho giunta qui, meretrice, che ti volei con Dio andare!»

Tuccora, con lagrime che sogliono gittare tali femmine, dice a Orsuccio: «Omai cognosco che tutte n’andiamo a un modo, però che mia madre mi disse quello che ora, Orsuccio mio, hai ditto: che quando io fusse presso alla morte, che io serei veduta che parrè’ che uno mi fusse a dosso e poi che io me n’andasse [p. 443 modifica]via e lui mi venisse dirieto. E così mi disse la mia savorosa mamma che alla sua mamma divenne, e quando la mamma mia venne a morte, lo mio savio babbo vidde quello che ora tu, vezzoso mio marito, di me veduto hai. E però ti dico, poi che tu me l’hai ditto — che mai non mi dicesti bugia — , ti prego che prima che io muoia — però che la vita mia non può esser oltra a xv dì, secondo quello che alle miei antiche parenti è intervenuto — , di mandare per un notaio, che io vo’ fare testamento. E prima che ’l mio corpo si soppellisca dove la mia savorosa mamma fu soppellita, e la mia dota vo’ che si stribuisca in questo modo: e prima, per l’anima di mio dolce padre vo’ che si dia il poder della Folombra; e per l’anima della dolce mamma si dia il podere del Ventospazza con tutte le pertinenze; et alla nostra benedetta chiesa si diano le vitellette nate delle miei vacche; et a Rustico nostro lavoratore lasso la mia bella gonnella; et a Rughia della villa di Buonamisura li lasso quel podere che del terreno di mia madre uscìo, u’ si dice Trallemieicosce, sì veramente mentre ch’io vivo lo lavori senza mancare, e quando serò passata di questa vita ne faccia quello che vuole. E perché tu, Orsuccio, m’hai preditto che io morir debbo, non vo’ che tu abbi de’ miei fatti altro che quel podere che si chiama il Gombo di frate Gabbo e quella vigna che si chiama la Tigna della Piacciuola. Altra cosa non vo’ che abbi poi che sì giovana m’hai preditto che morir debbo». Erano questi ii poderi, oltra le triste cose che Toccora avea, le più triste.

Narrato quello che vuole che il suo testamento dica, dicendo a Orsuccio che prestamente <per> lo prete e per lo notaio vada, Orsuccio, che udito hae quello che la sua Toccora dicea, li disse: «Toccora, e’ non è di bisogno che tu tal testamento facci, però che niente ho veduto, e quello t’ho ditto ti dicea per vedere quello che tu mi dicei». Toccora con vezzi dice: «Tu lo dèi pur aver veduto quel giovano che m’era a dosso; io ti prego, odore del mio sedere, che tu mel dichi, però che io non vorrei morire senza penetenza». Lo marito giura non averlo mai veduto; la donna lei fa più volte giurare; Orsuccio giura. Toccora dice: «Poi che tu mi dici il vero io voglio star contenta a quello dici senza far testamento, e vo’ che ogni possessione sia tua, salvo che per rimedio [p. 444 modifica]de l’anima di mia madre, Rughia possegga la possesione mia Trallecosce fine che io viva sarò, o lui; e poi ritorni a te, odorifero marito». Orsuccio dice: «Io sono molto contento».

E con allegrezza Orsuccio ne rimenò Toccora a casa, dove poi Rughia possedéo tal podere senza sospetto a suo piacer’e Toccora si confortava lassando la fatica del lavorare al marito, lei dandosi buon tempo.

Ex.º ci.