Novelle (Bandello, 1910)/Parte III/Novella LIX
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IL BANDELLO
a la illustre eroina
la signora
veronica gambara di correggio
Avvenne nel tempo de l’infelice Lodovico Sforza duca di Milano in una cittá del suo dominio che una gentildonna di gran parentado si conobbe esser vicina al morire; e sapendo che i medici per disperata avevano la cura di lei, fece chiamar a sé dui frati osservanti di san Domenico, dei quali l’attempato era quello a cui ella era solita confessar i sui peccati, e gli disse: — Padri miei, io conosco manifestamente che piú poco di vita m’avanza e che in breve anderò in altra parte a render conto come io di qua mi sia vivuta. E per fare dal canto mio ciò ch’io posso per scarico de l’anima mia, vi dico, affermo e confesso come il tale dei miei figliuoli — e quello nomò — non è figliuolo di mio marito, ma d’un mio amante, essendo mio marito fuor de la cittá, al quale diedi ad intendere, quando rivenne, che il figliuolo era nasciuto di sette mesi. Come io sia morta, congregate i miei figliuoli e a loro questa mia ultima confessione a mio nome manifestate. — E fatto chiamar il notaio che il suo testamento aveva scritto, gli disse: — Notaio, farai intender a’ miei figliuoli che di quanto dopo la morte mia gli diranno questi dui frati, credano loro e diangli quella fede che a me propria fariano. — Si mori la donna, e dopo alcuni dí, finiti tutti gli uffici, i dui frati fecero un di congregar i fratelli, ch’erano piú di tre, ai quali, dopo che il notaio ebbe fatta l’ambasciata de la madre, essendo uscito fuori, cosí il frate vecchio disse: Figliuoli miei, vostra madre, vicina a la morte, al mio compagno che è qui e a me lasciò che vi dicessimo come un di voi fratelli non è legittimo né figliuolo di quel padre che vi credete. Se tutti vi contentate che egli resti erede de la roba di vostro padre, noi non ne diremo mai piú parola. Quando che no, noi siamo sforzati a nominarlovi per nome proprio. Fate mò voi. — I fratelli, sbigottiti a tali parole, si guardavano l’un l’altro in viso. A la fine uno di loro, che era dottore, cosí disse: Fratelli miei, voi avete inteso il padre nostro ciò che ci dice. Se a me toccherá esser bastardo, ch’io non lo so, prima per via di ragione difenderò i casi miei e vorrò esser cosí buono ne l’ereditá come voi, non volendo ora aver la conscienza cosí sottile. E quando io fossi ben privato de la ereditá, non ho paura che mi manchi da viver onoratamente. E di giá voi potete vedere la riputazione ne la quale io sono, e i guadagni che vengono in casa per mio mezzo. Ma sia come si voglia e tocchi la sorte a chi Dio la manderá. Volendo noi che il padre riveli il nome di quello che nostra madre dice, dui mali effetti ne seguiranno, i quali noi debbiamo a tutto nostro potere schifare e fuggire. Il primo è che noi entraremo sul piatire e vi consumeremo l’avere e la vita, e Dio sa come l’anderá; l’altro non minor fallo è che noi metteremo l’onor de la nostra madre sul tavoliero, e dove fin qui ella è stata tenuta donna da bene, noi saremo cagione che per trista e disonesta femina fia creduta. E certamente debbiamo a questo metterci benissimo mente. La ereditá, che ci ha lasciata nostro padre, è la Dio mercé assai bastante per tutti noi ed anco per dui altri fratelli di piú, quando ci fossero, se vogliamo onoratamente e da nostri pari vivere. Io per me mi contento, per discarico de l’anima di nostra madre, che tutti noi restiamo fratelli come fin a qui siamo stati, e che a patto nessuno il padre non sia astretto a nominar nessuno. V’ho detto il parer ed openion mia: fate mò voi ciò che piú v’aggrada. — Udito il savio e prudente ragionare del dottore, gli altri fratelli, dopo molte cose tra loro tenzionate, si risolsero che egli ottimamente aveva discorso e che il suo parere si deveva seguire. E tutti poi pregarono i frati che mai di cotesta materia non facessero motto. I frati, veduta la buona resoluzione che i fratelli presa avevano, gli commendarono sommamente, assicurandogli che mai da la bocca loro non uscirebbe parola per la quale si potesse venire in cognizione di questo fatto. Ora, essendo questa cosa, cosí senza nome di nessuno, in V’erona narrata in casa del signor Cesare Fregoso mio signore, vi si ritrovò il signor Pietro Fregoso di Novi, vostro cugino, il quale, sentendo questa novella, disse: — Io n’ho ben una per le mani in qualche parte a questa simile, e dicendola non vi tacerò i nomi, essendo la cosa ai giorni miei accaduta ed assai divolgata. — Pregato che, poi che altro non ci era da dire, che la volesse narrare, senza farsi piú pregare, disse una istorietta, la quale a me parve degna d’essere scritta e al numero de l’altre mie novelle aggregata. Pensando poi a cui io la devessi donare, voi mi occorreste degna di lei, e di molto piú onorato dono, per le vostre singolari doti che, vinta l’invidia, cosí viva come séte, v’hanno fatta immortale, essendo anche voi di tal valore che potete fare, chi volete, eternamente vivere. Verrò anco con questa mia istoria a pagar in parte gli onori da voi alcuna volta a Correggio in casa vostra ricevuti. E per molti rispetti m’è paruto non metter i nomi propri, ancor che il signor Pietro gli dicesse, ma prevalermi d’alcuni finti. State sana.
NOVELLA LIX
Il conte Filippo trova la moglie in adulterio e quella fa morire
insieme con l’adultero ed una camerera.
Un eccellentissimo capitano, essendo ne lo stato di Milano di grandissima riputazione per le cose militari, diede una sua figliuola, che aveva nome Isabetta, per moglie ad un conte Filippo, che era signor di castella. Ella era bellissima giovane e di persona molto grande, ma baldanzosa molto e tutta pieghevole a’ prieghi d’altrui, di modo che poca fede serbava al conte suo marito, perciò che ogni volta che le era comodo, per non logorare quello di casa, si provedeva di fuori via. Ebbe un figliuolo del marito, che si chiamò il conte Bartolomeo. Poi, facendo ogni di qualche cosetta de la persona sua e non sapendo far le cose sue cosí secrete che molti non se n’avvedessero, cominciò forte a dubitare che il marito un di non si vendicasse di tutte l’offese che ella fatte gli aveva. Ed entrata in questo dubio, pensò esser la prima che menasse le mani, e deliberò levarsi per via di veleno il marito fuor degli occhi, sperando restar libera e governatrice del picciolo figliuolo. Avuto, non so come, il modo d’avere certi veleni, quelli diede in una bevanda al marito, il quale gravissimamente infermò. I medici chiamati a la cura sua si accorsero molto bene che il mal suo era di veleno, e fatto subitamente tutti quei rimedi che loro parvero a proposito, aiutarono di modo il conte che lo liberarono dal periglio del morire; tuttavia restò egli sempre alquanto cagionevole de la persona. La moglie in questa infermitá del marito si mostrava d’esser la piú grama e dolente moglie che mai si fosse veduta, e dal letto del marito mai non si partiva, piangendo sempre; di modo che il conte, che de l’onestá di quella aveva avuto qualche sospetto, venne in credenza d’aver la piú amorevole e pudica donna che a’ suoi tempi fosse. Ella, dolente oltra modo che il suo disegno non le era riuscito, né piú del veleno, come poi si seppe, potendo avere, e veggendo il conte male de la persona disposto, non volendo perder il tempo indarno ed avendo gettati gli occhi adosso ad un Antonio da Casalmaggiore, che era arciere del marito, di quello fieramente s’innamorò, e lasciati tutti gli altri innamoramenti, a questo solo dispose d’attendere. Era Antonio non molto grande di corpo, di pel rosso e gagliardo pur assai e di viso lieto e bello. Questo, di leggero de l’amore de la contessa avvedutosi, non ¡schifò punto la impresa, di modo che piú e piú volte in diversi luoghi e tempi si trovò a giacersi con lei amorosamente. Ora, usando meno che avvedutamente questa lor pratica, fu qualcuno di casa che ne avverti il conte; il quale, aperti gli occhi e poste de le spie a torno a la moglie e a l’arciero, venne in chiara cognizione de la disonesta vita di quella. Stette in pensiero il conte di fargli ammazzare tutti dui e trargli in un chiassetto, ché mai piú non se ne sentisse né nuova né ambasciata. Ma per meglio chiarirsi del tutto e trovar la gallina col gallo su l’ovo, e poi far quanto piú a proposito gli fosse paruto, disse un di a la moglie: — Contessa, a me conviene esser a Milano per parlar col signor duca, e penso che mi converrá star fuori piú che forse non credo. Averai buona cura de le cose di casa fin che io ritorno. — E chiamato il castellano, gli ordinò che a la contessa fosse ubidiente fin che da Milano fosse ritornato. Fatto poi la scielta di quelli che voleva che seco a Milano andassero, volle che Antonio da Casalemaggiore fosse di quelli che a la guardia de la ròcca, che aveva, restasse. Il che agli amanti fu di grandissima contentezza, sperando, in quel mezzo che il conte starebbe fuora di casa, aver il tempo e la comoditá a lor bell’agio di godersi insieme amorosamente quanto loro fosse piaciuto. Ma, come dice il proverbio, «una ne pensa il ghiotto e l’altra il tavernaro». Era del mese di maggio, nel principio. Ora il conte, fatto metter ad ordine il tutto e di giá informato il suo castellano di quanto voleva che si facesse, un di, dopo che si fu desinato, montò a cavallo e prese il camino verso Milano. Non era a pena il conte partito, che la contessa, chiamato a sé il suo amante, gli disse: — Anima mia, noi averemo pur ora la piú bella comoditá del mondo di poter esser insieme senza rispetto e di notte e di giorno. Il conte, come vedi, è partito, e a la presenza mia ha comandato al castellano che, fin che egli se ne torni, mi sia quanto a la persona sua ubidiente. Il povero castellano è oramai vecchio e credo che mal volentieri vada la notte in qua e in lá visitando le guardie. Io gli dirò che si riposi e che di questo lasci a te la cura, ché tu le rivisiterai quando sará il tempo. — E secondo che a l’amante ella aveva detto, cosí, chiamato il castellano, gli disse: — Castellano, poi che il conte è partito e che stará qualche di fuori, io vo’ che noi abbiamo buona cura di questa sua ròcca e de l’altre nostre cose, e che sovra il tutto le guardie la notte siano spesse fiate riviste e messovi buona diligenza, ché ancora ch’io non creda che ci sia pericolo, tuttavia si suole communemente dire che «buona guardia vieta rea ventura». Ed oltra ogni cosa, io so che al conte faremo piacer grandissimo quando intenderá che, mentre egli sia lontano, noi siamo stati solleciti e diligenti guardatori de le cose sue. Ma perché voi séte pur vecchio e l’andar a torno la notte non è troppo sano, io mi credo che sará ben fatto che voi diciate una parola a messer Antonio da Casalmaggiore, che in questi pochi di prenda questa fatica per voi di visitar le guardie, lo porto ferma openione che egli lo fará volentieri per amor vostro. — II castellano, che giá era stato dal conte instrutto, molto bene s’avvide a che fine la contessa queste cose diceva, e le rispose: — Signora, io farò tanto, in questa e in ogn’altra cosa, quanto sará vostro piacere di comandarmi. Ma egli sará ben fatto che voi gliene diciate una parola. E basterá che attenda di sopra e lasci a me la cura del ponte. — Come la donna l’aveva divisato, cosí si fece; di che l’amante si tenne molto contento. Ora come fu la notte, parve un’ora mille anni a la donna d’aver seco l’arciero, per vedere chi saperia meglio tirare. Il conte cavalcò di tal maniera che, quando tempo gli parve, fece rivoltare le briglie senza aprir a nessuno la sua intenzione. Come fu giunto a la ròcca, andò chetamente a dismontar al palazzo che di fuori aveva, e comandò che nessuno quindi si partisse per quanto avevano cara la grazia sua. Dopoi, chiamati tre dei suoi piú fidati, con quelli, essendo tutti quattro di corazzine, celate e spade armati, se ne venne verso la porta de la ròcca e diede il segno che al castellano ordinato aveva. Era buona pezza che il castellano aveva veduto entrar l’arciero ne la camera de la signora contessa, e s’era ridutto di sotto, aspettando il suo signore; onde, sentito il segno, senza far strepito alcuno calò la ponticella de la pianchetta e introdusse il conte con i tre compagni. Il conte alora a quei tre, con meraviglia grande di loro, aperse l’animo suo e di lungo se n’andò a la camera, la quale, con la chiave che aveva aperse, e trovò il suo arciero che tirava al segno senza veder lume. Aveva il castellano recato seco del lume; il perché l’arciero subito, cosí ignudo come era, fu preso e legato. La donna medesimamente, piú morta che viva, fu fatta levare; a la quale il conte altro non disse se non che s’apparecchiasse a dir tutti i tradimenti che fatti gli aveva. Ma per non far lunga dimora in queste cose cosí noiose, fu quella medesima notte l’arciero strangolato. A la donna fece il conte cavar i denti ad uno ad uno con la maggior pena del mondo; la quale confessò del veleno che al marito dato avea, e che a molti, i quali nomò, s’era amorosamente sottoposta, che di mente mi sono usciti. Disse anco come il primo figliuolo, il conte Bartolomeo, era legitimo e figliuolo d’esso conte Filippo. Intesa la confessione de la moglie, quella tenne alcuni di in prigione in pane ed acqua. Ciò che poi ne divenisse, non si sa; ma si tiene che non dopo molto la facesse, messa in un sacco, macerare in Po, con un gran sasso al sacco legato; come medesimamente si dice che aveva fatto d’una cameriera de la contessa, che in camera di lei dormiva e sempre degli amori di quella era stata consapevole.