Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella XXXIV
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tenerezza de l’amor paterno, che gli occhi accecati gli allumò e gli fece vedere di quanta ferina sceleraggine egli era stato cagione. Onde, tardi pentito d’aver prestato l’orecchie a la malvagia e sceleratissima femina, da nuovo furore arrabbiato e d’estrema disperazione colmo, ruggendo come un fiero lione e ad alta voce chiamando il nemico de l’umana natura, rivolse in sé la fulminea spada e, con quella passandosi per mezzo il core, sovra il morto ed ancora caldo figliuolo, miseramente esalando l’anima e nel suo e del figliuolo sangue ravvolgendosi, subito morí. La ribalda femina che al basso dietro al vecchio era scesa, veggendo sí crudele ed inaudito spettacolo e da la propria scelerata conscienza stimolata, dubitando de la giustizia, come si può presumere, levatosi da cintola alcune chiavi che v’aveva, e quelle ad una donna di casa, che quivi amaramente piangeva, gettate, andò di fatto, e in un profondissimo pozzo che nel cortile era, con il capo innanzi si gittò e lá dentro si soffocò. Tal fine ebbe la malvagia e rea femina, degna di morte piú crudele e d’essere da’ cani a brano a brano lacerata. Il podestá poi, fatta del caso diligentissima inquisizione e severo essamine, trovando che la ribalda fantesca era complice del tutto, quella vituperosamente fece morire, facendola in quattro quarti, tagliatole prima la testa, squartare, le cui membra fuor di Monza a le forche appese, le quali chi quindi passa manifestamente vede.
Accadono spesso certi casi impensati, che inducono molti in grandissimi perigli, e massimamente se l’uomo talora si ritruova tra gli stranieri e non intenda la lingua loro né si sappia far intendere. E ragionandosi di questi accidenti in Milano in casa de la molto illustre e vertuosa signora Ginevra Bentivoglia, moglie de l’illustrissimo signor Galeazzo Sforza signor di Pesaro, ove fu detto d’un soldato italiano che in Bertagna, per non esser inteso né sapendo parlar bertone, fu ferito e in gran periglio de la vita, messer Federico Crivello, giovine nobilissimo e discreto, narrò uno strano accidente avvenuto al signor Girolamo de la Penna, essendo esso Federico in Polonia con l’illustrissimo signor Prospero Colonna. Onde avendolo io scritto, il nostro messer Vincenzo Attellano m’ha pregato per parte vostra ch’io ve ne volessi far copia. Onde essendovi di molto maggior cosa tenuto, non solo di questa novella vi faccio copia, ma quella al vertuoso vostro nome dono e consacro, la quale degnarete umanamente accettare. Ma che prego io? Se voi sète la umanitá istessa e la cortesissima de le piú cortesi, non m’accade dubitare che voi queste mie ciance non riceviate umanissimamente. State sana.Novella XXXIV
Devete sapere, valorosa signora e voi altre graziose donne, che questi anni passati il signor Prospero Colonna, uomo per tutte quattro le parti del mondo per vertú, per arme, per liberalitá ed infinite altre sue doti famosissimo, fece compagnia da Napoli fin nel regno di Pollonia a madama la reina de la Pollonia, che fu figliuola del duca di Milano Giovan Galeazzo Sforza e de la signora Isabella di Ragona. Esso signor Prospero, come sempre ha di costume, condusse seco gran numero di gentiluomini e servidori, tra i quali io, suo creato, ci andai. Accompagnata che ebbe e al re presentata la reina, e fatte le nozze, le quali in vero furono de le piú celebri e pompose che a’ nostri giorni si siano fatte, deliberò il magnanimo Colonnese di ritornarsene in Italia. Ed essendo giá a l’ordine per far il viaggio, il signor Girolamo de la Penna perugino, cavaliero valoroso ed antico partegiano di casa Colonna, infermò gravemente; il che alquanto tardò la partita. Era altresí in Pollonia l’illustrissimo e reverendissimo monsignor lo cardinale da Este, venuto anco egli con onorata corte per onorar le dette nozze; il quale, intendendo la infermitá del cavaliero, l’andò a visitare. Era con lui il medico suo italiano, che a l’infermo fece di molti rimedii; di maniera che cominciò a prevalersi ed uscir di pericolo. Onde veggendo il signor Prospero che l’infermo prendeva gran meglioramento, se ne venne verso Italia. Il signor Girolamo con i suoi servidori, previsto di quanto gli bisognava, rimase in casa d’un pollacco. Aveva il medico del cardinale lasciata certa pasta di pillole a l’infermo e comessogli che, una fiata la settimana, ne pigliasse una, d’un’ora innanzi cena. E cosí, secondo l’ordine lasciatogli dal medico, volendone prender una, disse ad uno dei suoi servidori che andasse per un’ostia, a ciò che piú facilmente, coprendo la pillola con l’ostia, la potesse inghiottire. Avete da sapere che né l’infermo né alcuno dei suoi servidori sapevano pur un motto de la lingua pollacca, se non qualche paroluccia, come è «pane», «vino», «carne», «biada» e simili parole, che mille volte il dí per uso del vivere si dicono. Quanto al reggimento de l’infermo, il medico aveva lasciato in iscritto il tutto a lo speziale. Il famiglio adunque che per il padrone voleva un’ostia, accennato uno di quelli de la casa ove erano albergati, tanto con cenni ed atti fece che il pollacco intese pur che il lombardo voleva un’ostia per l’infermo, ma altrimente apprese la cosa che non era il bisogno. Egli intese che l’infermo fosse nel male tanto peggiorato che si volesse communicare; il perché accennò al servidore de l’infermo che anderebbe per quanto era richiesto. Onde subito andò a ritrovare il sacerdote parrocchiano, e disse a lui come uno gentiluomo italiano, venuto ad accompagnare madama la reina, era gravissimamente infermo e che voleva quella matina la santa communione. Il parrocchiano, messo ad ordine il tutto, col santo sacramento de l’altare in mano, accompagnato da molti torchi accesi e col campanello avanti, s’inviò a la casa ove l’infermo giaceva. Il pollacco, che era ito a la chiesa per prender l’ostia, avvisò tutti i suoi di casa come l’infermo voleva ricever il sacratissimo corpo di Cristo e che il prete parrocchiano veniva per communicarlo. Erano in quell’ora a caso tutti i servidori de l’infermo fuori casa, chi per una cosa e chi per altra. Quelli de la casa, uomini e donne, sentendo venir il parrocchiano col sacramento de l’altare, tutti gli andarono riverentemente a l’incontro, e il corpo del nostro Signore con gli altri a la camera de l’infermo accompagnarono. Il signor Girolamo, sentendo questa processione che in camera con torchi accesi entrava, si meravigliò forte; pur attese a che fine simile spettacolo riuscisse. Ma come vide entrare dentro il sacerdote con la cotta indosso, la stola al collo e il tabernacolo in mano, assai piú si meravigliò; pur, a la meglio che puoté, si levò sentone, e, scopertosi il capo, adorò con somma riverenza il santo sacramento. E volendo il prete dirgli non so che e communicarlo, egli, parlando italiano, disse che alora non voleva prender il Corpus Domini, sí perché non s’era dei suoi peccati confessato ed altresí perché non era sí gravemente infermo che gli bisognasse prender il viatico del santo corpo di Cristo. Onde, perciò che egli né polacco né latino sapeva parlare, quando disse che non era dei suoi falli confessato, per fargli meglio intendere e capace di ciò che diceva, si percosse due e tre volte il petto in atto di contrizione. Il che veggendo il sacerdote, imaginò che egli dicesse sua colpa, come è costume in tal atto di fare, e che si preparasse a la recezione del santo sacramento. Indi, cominciata una sua diceria in pollacco e fatti mille segni di croce, prese in mano il Corpus Domini per darlo a l’infermo. Ma egli facendo tuttavia cenno che nol voleva prendere, teneva pur detto: – Messere, voi non m’intendete: nolo Corpus Domini. – Queste tre parole latine intese dal sacerdote, gli diedero a credere che l’infermo fosse fuor di sé e vaneggiasse. Il signor Girolamo, che da fanciullo era sempre stato nodrito ne le arme e solamente sapeva leggere, non sapeva altrimenti parlar latino, e quelle tre parole gli erano di bocca uscite non so come. E non sapendo piú chiaramente esprimere il suo concetto, si meravigliava meravigliosamente di questo caso, e non sapeva imaginarsi la cagione di quello. Mentre erano in questo conflitto, arrivò il servidore che aveva accennato al pollacco che voleva un’ostia, e visto questo apparato, s’avvisò che male era stato inteso. E fattosi innanzi, e veduto quello che a la chiesa era ito, le fece segno che mal aveva appreso le parole sue. Poi, presa in mano la pasta de le pillole, voleva dar ad intendere al prete a che fine aveva richiesta l’ostia, e teneva detto al sacerdote che a la chiesa se ne ritornasse, perché suo padrone non era per communicarsi. Il prete, veggendo quella pasta di pillole e non intendendo che cosa si fosse, pensò che volessero fare qualche maleficio col sacramento e che il padrone e i servidori fosser grandissimi ribaldi. Il perché, con questa mala credenza, rivolto a quelli che lo avevano accompagnato, cominciò a dire mille mali de l’infermo e dei famigli: che erano malvagi uomini ed incantatori e che quello che in letto giaceva voleva morirsi come un cane. – Cacciategli, – diceva egli, – di casa, a ciò che Dio insieme con loro non vi faccia pericolare. – Erano giá quasi mezzo mutinati quei polacchi per fare un male scherzo a l’infermo e servidori, quando sopragiunse uno del paese, che era stato lungo tempo a Roma e intendeva assai bene la lingua nostra. A costui narrò il servidore de l’infermo il caso de l’ostia; il che egli dichiarò a tutti i circonstanti. Del che il tutto si risolse in riso, ed il prete, ridendo anco egli, se ne tornò a la chiesa e mandò un’ostia grande a l’infermo per pigliar le pillole. Il quale, in breve guarito, se ne ritornò in Italia, e spesso fa, narrando il caso come fu, rider chi l’ascolta, confessando che in effetto ebbe una grandissima paura di non esser su la strada come un cane gittato.
Da che io partii dal vostro ameno e fruttifero castello di Bargone in Parmegiana e me ne ritornai a Milano, ad altro mai non ho atteso che ad ispedire quanto voi degnaste di comandarmi. Ed emmi la fortuna stata sí favorevole, che il tutto è successo sí compitamente che voi meglio non sapereste desiderare. Non vorrei perciò che voi credeste che io volessi, come fece il corbo, vestirmi de le penne del pavone e defraudare gli altri de le lor fatiche. Io mi ci sono nel vero molto affaticato; ma se non era l’autoritá del gentilissimo signor Alessandro Bentivoglio, vostro zio e mio singolarissimo padrone, e se non v’intraveniva il conseglio del mio splendidissimo e saggio Lucio Scipione Attellano, io dubito che ancora sarei a cominciare. Ma sia lodato Iddio, che ogni cosa s’è ridotta a tranquillo fine e al tutto imposto perpetuo silenzio. E perché ne le lettere vostre ultimamente ricevute, dopo l’avermi essortato a dar fine al sovradetto negocio, mi ricercate che io vi mandi per ogni modo qualcuna de le mie rime, io vi dico che non saprei che cosa mandarvi che voi non abbiate vista e letta, perciò che, dapoi che vi lasciai, le mie muse sono state meco in tanta còlera che io non ho mai né saputo né potuto comporre un verso. E nondimeno non ho perciò del tutto perduto il tempo, ché ho scritto alcune novelle di varii accidenti che a la giornata occorrono. Onde avendone scritta una nuovamente in Milano avvenuta, quella a voi ho voluto mandare, che è de le beffe che tutto il dí le donne fanno a’ mariti; e fummi narrata dal mio vertuosissimo messer Martino Agrippa. Il quale suol dire che non produce di nuovo ogni anno la primavera tante frondi e fiori, quante sono le frodi che le mogli fanno ai mariti, le quali, se si sapessero tutte e fossero scritte, farebbero assai piú volumi che non sono quelli de le