Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte III/Novella XIV
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Molte fiate, essendo voi, Leandro mio, in Milano, abbiamo ragionato de l’ignoranza d’alcuni che sui publici pergami predicano assai cose che sono fuor d’ogni ragione, e massimamente che cercano con finti miracoli di voler eccitare gli auditori a divozione. Questi tali vogliono le cose de la fede catolica, predicate e confermate col sangue e testimonio di tanti gloriosi martiri, con le loro magre fizzioni far più ferme e non s’avveggiono che s’affaticano d’accrescere con un picciolo lumicino la luce e il calor del sole. E perchè la religione cristiana non ha bisogno di bugie, essendo vera e catolica, s’è ne l’ultimo concilio lateranense, cominciato sotto Giulio secondo e finito sotto Lione decimo, espressamente proibito che nessuno, di che grado si sia, presuma predicar queste chimeriche invenzioni di falsi miracoli; il che nel vero santissimamente è stato fatto. Ora, non è molto, ragionandosi di questa materia ne l’orto de le Grazie, ove essendo da Roma venuto a Milano frate Salvestro Prierio, maestro del sacro palazzo, vi si ritrovò anco messer Francesco Mantegazzo, patrizio milanese ed uomo di grandissima gravità, quivi dissero alcuni che gli errori che seminava Martino Lutero, e senza dubio in grandissima parte, hanno avuto origine da la indiscreta superstizione di molti religiosi e da la avara ingordigia d’alcuni chierici e da la poca provigione che al principio gli era stata fatta. E ciascuno diceva ciò che più gli pareva a proposito. Il magnifico Mantegazzo alora, rivolto al maestro del sacro palazzo, e preso di parlar licenza, narrò una istorietta a questo proposito che tutti ci fe’ ridere. Era io presente al suo parlare e, parendomi l’istoria degna d’essere scritta, quella subito scrissi. Ed intervenendo ne l’istoria quasi per principale un bolognese, voi m’occorreste a cui meritamente ella da me dedicar si devesse, essendo voi nato in Bologna d’onorata ed antica famiglia, e scrivendo tutto ’l dì gli annali de le cose dai bolognesi fatte, con tante altre vostre opere che componete. Questa adunque istoria vi mando e dono in testimonio de la nostra cambievole benevoglienza. State sano.
Io vi vo’, padri miei venerandi, al proposito di che s’è parlato una breve istoria narrare, a ciò veggiate il male che fanno coloro che, lasciato il sacro vangelo, predicano sui pulpiti le fole, avendo il Salvatore nostro detto ai suoi discepoli: – Andate e predicate il vangelo ad ogni creatura. – Essendo io assai giovine, predicava nel duomo di questa nostra città di Milano un frate minore marchiano, con tanto e sì frequente concorso d’ogni sorte d’uomini e donne che era una cosa incredibile. Disse questo frate marchiano più volte in pergamo che san Francesco aveva ottenuto da Dio un gran privilegio, che era che tutti quelli che portavano il cordone cinto, in vita, quando poi morivano non andavano a lo inferno già mai, ma sì bene secondo i peccati al purgatorio, dove esso san Francesco una volta l’anno discendeva e mandava giù il suo cordone, al quale tutte l’anime che in vita portato l’avevano s’attaccavano, ed egli le conduceva in cielo. Sì bene seppe egli questa sua favola adornare e colorire, che non ci fu persona che non si cingesse il cordone. Io, per non esser più savio degli altri, lo cominciai a portare. Nel fine de la quadregesima che il marchiano predicava, cominciò a crescer la peste e in breve fece un grandissimo progresso, di modo che d’aprile sino al settembre e ottobre affermarono gli ufficiali de la peste che tra la città e il contado morirono circa ducento trenta mila persone. Ma per la buona guardia che vi s’ebbe, essendo la città benissimo purgata fu mandato dai nostri superiori a predicar in duomo la seguente quadragesima il padre fra Girolamo Albertuzzo bolognese, cognominato da tutti «il Borsello», che era uomo di gran presenza, dotto, molto eloquente e nei suoi sermoni pieno di bonissima grazia. Intese egli, non saprei dir come, ciò che il marchiano aveva predicato del cordone, e si meravigliò forte di tal pazzia; onde si deliberò levar i milanesi da sì folle credenza, nè altro aspettava che una onesta occasione. Avvenne che, predicando una domenica dopo desinare per certi giubilei a profitto de lo spedale maggiore, che il duca Lodovico Sforza, alora governatore del nipote, con tutta la corte e la nobiltà di Milano si ritrovò a la predica, di modo che il duomo, che sapete pure quanto' 'è largo e spazioso, era tutto pieno. Il Borsello, parendogli esser prestata ottima occasione a quanto voleva fare, dopo che ebbe assai commendati quei giubilei, si rivolse al duca e gli disse: – Egli sono, eccellentissimo signore, molti dì che io debbo dare una mala nuova al vostro popolo milanese; ma fin ora ho tardato, perchè mi duole d’attristar nessuno. Tuttavia essendo il caso di grandissima importanza, e quanto più si tace tanto esser più peggio, ho io deliberato a la presenza vostra scaricarmi de l’obligo mio. – Quivi incominciò a dir quanto inteso aveva esser stato detto dal marchiano; soggiunse poi: – Avendo io, signor mio, inteso sì eccellente privilegio d’esso cordone, mi era deliberato mandar a Roma ed ottener un breve del papa che mi dispensasse, che ancora ch’io fossi frate di santo Domenico, mi fosse lecito portare quel beato cordone. Ma una notte, essendo io a l’orazione, m’apparve un angelo che mi disse: – Borsello, vien meco. – Andai con esso lui non molto lunge e sentii tremare tutta la machina de la terra e scuotersi con gran romore. Ecco che vidi quella innanzi ai piedi miei aprirsi, facendosi un’alta e larga voragine. M’inchinai per comandamento de l’angelo, e quivi entro mirai e vidi il purgatorio aperto, ove l’anime in quel penace fuoco purgavano. Nè guari stetti che vidi scender dal cielo il padre san Francesco col suo cordone in mano. Sapete, signor mio, per la passata pestilenza esser morte migliaia di persone, di cui la maggior parte per le prediche del marchiano si cingevano il cordone; il perchè ritrovò san Francesco il purgatorio del solito assai più pieno. Onde mandò giù il cordone, al quale tante anime s’attaccarono che non potendo egli sostenere la ponderosa gravezza del peso che a basso il tirava, per non traboccare in quei fierissimi tormenti e provar cotante acerbissime pene da lui non meritate, sentendo già ardersi la mano, quella il benedetto padre allargò, e lasciò cadere il cordone con l’anime insiememente dentro il fuoco, in cui subito il cordone come un’arida paglia da le voraci fiamme fu arso e consumato. Comandommi alora l’angelo ch’io annonziassi ai miei creduli ambrogiani il caso come era occorso e facessi loro intendere che non ci è più cordone che tenga. Perciò al presente a la presenza vostra, eccellentissimo signore, ho voluto annonziar il tutto al popolo, a ciò che ciascuno si sganni e s’avveggia de l’errore ove era intricato. – E su questo l’eloquente e facondo Borsello cominciò a riprender coteste indiscrete superstizioni, anzi più tosto dannose e nocive openioni, e disse di molte belle e utili cose, facendo con evidentissime ragioni a tutti toccar con mano che a voler acquistare il reame del cielo non basta esser bianco, bigio, nero o turchino o di qual si sia colore, ma convien fare la volontà del Padre eterno e aver la grazia sua, senza la quale nulla si può far di buono nè di meritorio a vita eterna. E quivi l’ingegnoso ed eloquentissimo Borsello disse sì bene e così buone cose, e con tanta veemenzia nei cori degli audienti impresse le sue sante parole, che alora alora quasi tutti, così uomini come donne, che cinto portavano il cordone, se lo discinsero, riconoscendo l’error loro ove sino a quell’ora erano stati immersi. Indi finito il fruttuoso e salubre sermone e partitosi dapoi il popolo fuor de la chiesa, si trovarono caduti in terra più di sette mila cordoni. Ed io, per dirvi il vero, fui uno di quelli che me lo discinsi e gettai per terra, parendomi che fra Girolamo ci avesse a conoscer la verità aperti gli occhi. Il duca Lodovico e tutti i signori e gentiluomini e universalmente il più degli auditori rimasero ottimamente sodisfatti, e dai saggi fu giudicato che esso Borsello aveva mostrato buon giudicio e fatto prudentemente a gabbarsi de le superstiziose invenzioni di coloro che si persuadono, per vestirsi di tal e tal colore, o di cingersi il cordone o la correggia di cuoio, e non far l’opere de la carità e ubidire ai comandamenti di Cristo, di deversi salvare.
Non essendo cosa a l’uomo, mentre in questo mondo vive, più certa de la morte, nè più incerta de l’ora e sorte o sia maniera di morire, meravigliosa cosa mi pare che sia generalmente quella a cui meno che ad altro che ci sia si pensa. Io non dico già che di continovo debbiamo esser fitti col pensiero su la malinconia del morire, chè sì severamente non voglio astringer nessuno; ma bene sono di parere che di grandissimo profitto a ciascuno sarebbe, di qualunque condizione egli si sia, sovente ricordarsi che è uomo e consequentemente mortale. Nè voglio ora che entriamo in sagrestia, volendo dir quello che dice la Scrittura: «Rammemora il fine de la tua vita che è la morte, e in eterno non peccarai»; e meno voglio per ora che abbiamo