Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XXX
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l’ufficiale de l’arcivescovo di Tolosa. – Il vecchio come sentì questo, se gli fece incontro e disse mezzo smarrito e con tremante voce: – Che volete voi? – L’arciero gli disse: – Il re vi saluta. Seguitatemi! – E si mise per uscir di camera, dicendo tuttavia con parlar arrogante: – Seguitatemi, seguitatemi! – Il povero vecchio più morto che vivo: – Aspettate, – diceva, – aspettate. E che vuol il re da me? – L’arciero con mal viso teneva pur detto: – Orsù, andiamo. Monsignor, speditevi. – Deh, di grazia, – disse il vecchio, – sapete voi ciò che voglia? – Basta! – rispose l’arciero. – Andiamo, andiamo, e non mi fate più aspettare. – E pregando tuttavia il vecchio che cosa era, egli gli disse: – Io ve lo dirò, ma tenetemi celato. Il re vuol far la compagnia dei suoi arcieri dei più grandi uomini di Francia, e gli è stato detto di voi, che in vero sète un bell’uomo e farete un bellissimo vedere con una alabarda in spalla. Orsù via, andiamo. – Il vecchio, che voleva pagare di calcagni, gli disse: – Andate, che io verrò a corte. – No no, – rispose l’arciero, – egli conviene che io v’accompagni. – Ora dissero molte parole, e insomma l’arciero ebbe dieci ducati chè non lo conducesse. Partì l’arciero, ed il Savonaro, fatto sellar i cavalli, se ne ritornò con gran prestezza verso Tolosa, dicendo tuttavia: – Que te calè, Antoyne Savonieres? que te calè? Tu eres officiao, et estaves plan. Que te calè? Certes un vieit d’ase per pots. – Queste sono parole de la lingua nostra guascona che in italiano dicono: – Che ti mancava, Antonio Savonaro? che ti mancava? Tu eri ufficiale e stavi agiatamente. Che ti mancava? Certamente la verga de l’asino per lo mostaccio. – E giunto in Tolosa infermò e con queste parole se ne morì. Onde Carlo suo nipote ereditò le quattro mila lire ed altre robe assai, e comprò un luogo di consegliero; ed oggi vive senatore del parlamento di Tolosa, avendo col suo avviso saputo far che lo zio non buttasse via i danari, essendo da la vecchiezza consumato com’era.
Veggiamo tutto il dì scoprirsi grandissima differenza tra gli uomini e le nature ed inclinazioni loro, così varie che ben sovente in tutte l’azioni loro si discorderanno. E come di rado si ritrovano dui che d’effigie e lineamenti del corpo s’assimiglino, così anco rare volte dui saranno in tutto d’un volere, di modo che se in una cosa converranno, in molte altre poi saranno di varii pareri. Colui in ogni azione od opera che sia per fare, quantunque ella sia facile e consueta facilmente a mettersi in essecuzione, sempre vi ritrova difficultà, e sì con suoi argomenti innanzi agli occhi lo la dipignerà, che ciò che è possibile ti farà parer impossibile e ti porrà in disperazione che il tuo desiderio debbia aver effetto. Quell’altro poi ha l’animo così fatto che niente si pensa esser impossibile, e quanto più l’effetto che se gli ricerca è difficile a condursi a desiderato fine, tanto più egli lo reputa facile, e d’argomento che in contrario tu gli faccia, punto non si sbigottisce, a bene spesso aiutato da la vivacità ed acutezza d’un elevato ingegno, ciò che era da tutti stimato che riuscir non dovesse già mai, egli fa con non troppa difficultà venir ad effetto. Questi tali comunemente son molto grati a’ gran maestri che sempre ricercano di far ciò che quasi far non si può, e più grati anco al volgo che veggendo per mezzo loro condursi a fine un’opera creduta quasi impossibile di farsi, gli credono uomini più che naturali; che se conoscessero la sottigliezza de l’ingegno de l’uomo, cessarebbe in loro l’ammirazione. Si ragionava di questa materia da alcuni gentiluomini di casa de la signora mia padrona, la signora Gostanza Rangona e Fregosa, avendoci prestato il soggetto Pittigliano sescalco, il quale di cosa che se gli domandi mai non dice di no, ben che rade volte segua l’effetto a le sue parole. Comandagli pur ciò che tu vuoi, egli sempre ti risponderà che sarà fatto, o sia possibile o impossibile quello che se gli ricerca. Onde in questi ragionamenti messer Stefano Coniolio canonaco agennense narrò una bella novelletta, la quale essendomi piacciuta scrissi e volli che sotto il vostro nome fosse dal publico veduta. Ella adunque sarà testimonio eternamente de la mia verso voi osservanza. State sano.
L’anno passato essendo io in Amboisa a la corte per gli affari di questo vescovado, sentii da un gentiluomo alvergnasco, che era molto vecchio e diceva esser stato paggio del re Lodovico undecimo, narrar molte cose memorabili d’esso Lodovico. E tra l’altre cose che diceva, narrava come era stato uomo che mirabilmente si dilettava di coloro che non trovavano cosa alcuna impossibile da esser messa in essecuzione, ancor che l’effetto alcuna volta non succedesse, e che sommamente gli piaceva che l’uomo vi si mettesse per approvar ciò che poteva riuscire. Onde disputando un giorno a la presenza d’esso re monsignor l’abbate di Begnè, uomo di grandissimo ingegno e musico eccellentissimo, de le vertù de la musica e de la dolcezza de l’armonia, il re per burla gli domandò se egli, secondo che aveva trovato due o tre fogge d’instrumenti musicali non più a quella età veduti, averebbe saputo trovar un’armonia di porcelli, credendo che l’abbate devesse dir di no. L’abbate udendo la proposta del re, non restando punto smarrito e cadutogli in animo ciò che intendeva di fare, gli rispose molto allegramente: – Sire, se voi mi fate dar il danaio che bisognerà a far questa musica, a me dà l’animo di farvi sentir una mirabilissima armonia che risulterà da la voce di molti porcelli, che io regolatamente farò cantare. – Il re, desideroso di veder che fine averebbe cotal fatto, gli fece quel dì medesimo da uno dei suoi tesorieri numerar quella somma di danari che egli domandò. Si meravigliava ciascuno de l’impresa de l’abbate e dicevano ch’egli era stato folle a mettersi a quel rischio, perciò che il re s’era convenuto seco che non gli riuscendo questa musica porcellina, che gli pagasse altri tanti scudi quanti n’aveva ricevuti dal tesoriero, e se riusciva, ogni cosa restava a l’abbate. Ma l’abbate diceva a tutti coloro, che erano uomini di poco spirito e che non sapevano far nulla, e che tutto quello che essi non sapevano fare si pensavano esser impossibile. Pigliò l’abbate termine un mese a fare questa musica e in quel tempo comperò trentadui porcelli di varia età, scegliendone otto per tenore, otto per il basso, otto per il sovrano e otto per l’alto. Di poi fece un instrumento con i suoi tasti a modo d’organo, con fili lunghi di rame in capo dei quali maestrevolmente erano alligati certi ferri di punta acutissima, i quali secondo che i tasti erano tócchi ferivano quei porcelli che egli voleva, onde ne resultava una meravigliosa armonia, avendo egli sotto un padiglione fatti legar i porcelli secondo l’ordine che si ricercava, e di modo che non poteva essere che al toccar dei tasti non fossero punti. Provò cinque o sei volte l’abbate la sua musica, e trovando che molto bene gli riusciva, innanzi al termine di quattro giorni invitò il re a sentir la musica porcellina. Era alora il re a Tours con tutta la corte, e bramoso di veder e sentire cotal armonia, andarono ne la badia di Mamostier che fondò san Martino, ove l’abbate aveva il tutto apparecchiato. E veggendo il padiglione teso e l’instrumento a foggia d’organo a quello attaccato, stavano tutti con meraviglia, non si sapendo imaginare che cosa si fosse e meno che ci era sotto il padiglione. Ciascuno si fermò, ed il re disse a l’abbate che facesse l’ufficio suo. L’abbate alora accostatosi al suo instrumento cominciò a toccar quei tasti come si suona l’organo, con sì fatta maniera che, grugnendo i porci secondo l’ordine che erano tócchi e trafitti, ne resultava una buona consonanzia ed una musica non mai più sentita, ma meravigliosamente dilettevole a sentire, perciò che l’abbate, che era musico eccellentissimo, sonò alcune belle «ricercate» ed alcuni «mottetti» maestrevolmente composti, del che il re prese un grandissimo piacere. E non contento d’aver sentita la musica nuova una volta, volle che l’abbate due a tre volte gliela facesse sentire. Onde il re e tutti quei signori ed altri che erano stati presenti a la musica, giudicarono che l’abbate aveva perfettamente a la promessa sodisfatto, e molto ne restò commendato. Fece poi il re alzar il padiglione da una banda per poter veder l’ordine dei porcelli, e veggendo la maniera come erano legati e l’ordine de le fila di rame con quei ferri a modo d’ago acutissimi, forte si meravigliò e tra sè giudicò lo abbate esser uomo d’elevato ingegno a di grandissima invenzione, e gliene diede quelle lode che gli parve che cotal nuovo ordigno meritasse. Questo è quell’abbate, per dirvi un’altra cosa che di lui intesi, il quale con una prudente risposta seppe conservarsi e mantenersi abbate. Desiderava sommamente il detto re' 'Lodovico undecimo gratificar un certo straniero a fargli aver una badia, e non ne vacando in quei dì nessuna, chiamò a sè questo abbate e lo pregò che gli volesse rinunziar la badia, che gli daria una pensione equivalente fin che ne vacasse alcun’altra. L’abbate sapendo ciò che teneva, subitamente, intesa la proposta del suo re, così gli rispose: – Sire, io ho travagliato quaranta anni prima che abbia potuto imparare A. B., io vi supplico che mi diate altro tanto tempo di poter imparar il resto che segue. – Intese il re la pronta e bella risposta de l’abbate, che voleva dire che di quaranta anni era stato fatto abbate e che desiderava di goder altro tanto tempo la badia, e che avendo una rendita certa, non voleva correr dietro ai tesorieri per riscuoter la pensione, che molte fiate è una passione. Piacque questa risposta al re e lo lasciò goder la sua badia, e a lo straniero fece provigione per altra via.
Non guarda con tanti occhi l’alto cielo in terra quando, da ogni nube purgato, più lucido e zaffirino con la chiara ed argentata luna la notte l’eterne sue bellezze ci dimostra, nè tanti fiori la florida Flora ne la primavera maestrevolmente con nativi e bellissimi colori va diversamente dipingendo, nè la saporosa e dolce Pomona tanti frutti da ogni tempo riduce a la debita maturità, quanti sono gli effetti che il lusinghevole e pieno di mille lacci amore nei cori dei semplici mortali produce, alora che egli, le sue velenose fiammelle variamente avventando, gli abbruscia. Dico «variamente», perciò che chiaro si vede e con man si tocca che secondo che egli in diversi temperamenti di corpi s’attacca, così diverse e varie n’escono l’operazioni che gli uomini innamorati fanno. E forse con verità direi che amore non è quello che fa talor alcuni strabocchevoli svarioni che a molti far si veggiono, ma il lasciarsi superare da le passioni è la cagione di quelli. Pertanto io mi do a credere, e giovami esser in questo parere, che non sia lecito di accusar amore quando avviene che uno mal venturoso amante trascuratamente faccia alcuna cosa fuora del debito ordine, perciò che la colpa non è de l’amore, ma di noi che, come già cantai, non sappiamo amare. Ora deve ciascuno sapere che l’oggetto de l’amore è la cosa che «amabile» si noma, la quale altro domandar non potrà già mai che tutto quello che buono ci appare, essendo pure, come tutti i savii vogliono, l’apparente buono il proprio e vero oggetto del nostro appetito. Mentre che questo apparente buono a l’appetito s’appresenta e lo demolce, subito l’ingordo appetito, ebro di piacere, inverso quello come la vaga farfalla a l’amata luce si raggira; indi in lui nasce una certa compiacenza e dilettazione che verissimamente si chiama «amore». Questa compiacenza, se con ragione parlar vogliamo, erronea cosa sarebbe chiamar «desiderio», ancor che sia principio di quello, perchè dal movimento che ella fa verso ciò che le appar buono nasce senza dubio, come fa il ruscello dal fonte, il desiderio. Onde il maestro di coloro che sanno lasciò scritto che tutti desiderano ed appetiscono il bello e il buono, cioè tutto quello che