Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XLIX
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di prender acqua da farsi bella, tutta s’era tinta d’inchiostro. Ella pur tanto gridò che, a la voce conosciuta, dicendo che era fatta nera da l’inchiostro, fu cagione che alquanti frati se le accostarono e riconobbero l’errore. E per la stagione che era caldissima, alcuni fratacchioni con acqua fresca e sapone tanto la lavarono e fregarono che ella tornò bianca come prima. E più volte poi di questa beffa tra loro risero assai. Io lascio mò giudicar a voi se questo avvenimento fu a fortuna o a caso, e se, dopo che lavata fu e tornata come prima netta e bianca, fu ventura la sua che più d’una decina di quei frati seco amorosamente si giacque.
Abbiamo fatto, questo carneval passato in Bassens, di quella maniera che a la gravità e gentilezza di madama vostra amorevole ed onorata madre fu convenevole, pigliando quegli onesti piaceri e leciti trastulli che la stagione e il luogo ci concedevano. Erano con noi alcuni gentiluomini italiani, la cui conversazione ne dava lieto e gioioso diporto, non ci mancando parlari piacevoli e faceti già mai, di modo che furono narrate di molte bellissime novelle, che secondo che si narravano furono da me scritte. Tra l’altre una ne narrò messer Filippo Baldo, che di novelle ed istorie è più copioso che non è una florida e temperata primavera di varii fiori e di nuove erbette, e ci disse un atto d’un lione che a tutti parve cosa mirabile, e massimamente ad alcune dame e damigelle de la contrada che con noi si trovarono di brigata. E questionandosi onde potesse provenire che un lione si lasciasse levar fuor degli artigli suoi un cagnolino da una giovanetta, molte cose de la natura dei lioni furono raccontate, che tutte, nel vero, sono notabili e meravigliose. Parve gran cosa che il lione, che è re degli animali quadrupedi, così fieramente tema il canto del gallo, e da sì disarmato e picciolo augello via se ne fugga, come fa il semplice agnello dal fiero lupo. E tanto più fuggirà e si colmerà di terrore nè potrà sostener l’aspetto di quello, s’avviene, come scrive Alberto Magno, che il gallo sia bianco. Non può anco sofferir lo strepito che fanno i carri rivolgendo le rote. Aborrisce grandemente il fuoco, di modo che mai non s’accosterà a chi porti fuoco in mano. E nondimeno egli è animale ferocissimo e fortissimo, ma con la ferocità è il più generoso tra le bestie che si sappia, e pare che la maestra natura gli abbia dato intelletto ed una inclinazione ad intendere e conoscere le preghiere che gli porgono coloro che dinanzi a lui prostrati gli chiedeno mercè, come narra Plinio de la cattiva de la Getulia, che ne le selve con le dolci ed umili preghiere placò l’ira di molti lioni. Ed in effetto egli solo tra le fere è chi usi clemenzia con i supplicanti, e tra tutti più generosamente l’usano quelli che hanno i biondi crini lunghi sul collo e sovra gli omeri, il che avviene solamente a quelli che generati sono da lioni e da lionze. Chè se un pardo ingravida una lionza, il lione che nascerà nè agli omeri nè al collo le chiome già mai metterà. E questi rimescolamenti di varie sorti d’animali avvengono per lo più in Affrica, perciò che quella provincia non è molto abondevole d’acque, onde sono sforzate varie spezie di bestie trovarsi adunate insieme a bere ove sono l’acque, e quivi, tirate dal furore de la libidine, si meschiano varie sorti e nascono poi parti nuovi e mostruosi. Onde appo i greci ebbe origine il volgato proverbio: «Sempre l’Affrica apporta alcuna cosa nuova». Il che usurpò Aristotile nel libro De la generazione degli animali, e medesimamente Anasilla a quello alluse nel quarto libro di Ateneo. Fu anco raccontato che quando i lioni sono diventati vecchi, e per la vecchiaia mancano loro le forze naturali, di modo che divengono inabili a poter cacciare e procurarsi il vivere de le carni degli altri animali, che grandemente appetiscono cibarsi di carne umana; onde scrive Plinio che alcuna volta tanta moltitudine di lioni vecchi s’è messa insieme, che hanno assediate de le città, e che gli affricani per levarsi l’assedio hanno tenuto modo d’aver uno o dui lioni i quali a le publiche forche appiccavano; dal che ne seguiva che gli altri lioni per la paura di total supplizio si levavano da l’assedio. Fu poi ultimamente detto che se il lione per sorte contra l’uomo e la donna entra in còlera, che prima sfogherà l’ira sua contra il maschio e s’insanguinerà contra lui che contra la femina, e che mai non nuoce a’ piccioli fanciullini, se una estrema rabbia di fame, non trovando da pascersi, nol cacciasse e stimolasse; ma non essendo sforzato da la fame, non nuoce a persona. Insomma sovra il tutto fu mirabilissimamente commendato per la generosità, clemenzia e gratitudine che usa verso chi gli fa beneficio, come molti scrittori mostrano. Si conchiuse adunque, dopo molte cose dette, non aver il lione incrudelito contra la giovanetta, sì per la natural inclinazione che lo rende clemente e generoso, ed altresì chè la natura sua lo spinge ad aver più compassione al sesso feminile, come più debole, che al maschile. Ora se la natura insegna a così feroce e forte bestia esser generosa e clemente, che deve far l’uomo, capace de la ragione? È, nel vero, questa vertù de la clemenzia sempre lodevole e commendabile, che altro non è che una temperanza d’animo in astenersi da la vendetta, o vogliamo dire una lenità e mansuetudine del superiore in determinar le pene e castighi che dar si deveno ai delinquenti. Nè per questo crediate che la severità le sia a modo veruno contraria, perchè tra le vertù non può esser discordia nè contrarietà. Bene è contrario a la clemenza il vizio de la crudeltà, che è una ferina atrocità d’animo in bramar, troppo più che non ci detta la ragion naturale, il castigo degli errori, e fare che infinitamente la pena sormonti il peccato; cosa invero che tiene più de la bestia che de l’uomo. Onde perciò che l’ira ingombra assai sovente di modo l’animo nostro che non se gli può metter freno, e sì l’abbaglia che non ci lascia discerner il vero, si suol dire che l’uomo adirato non deverebbe mai castigar un delinquente mentre che l’ira il predomina e l’accende, perchè non saperebbe tener la mediocrità, che si ricerca fra il più e il meno. Questo ho io voluto dirvi, signor Ettor mio, a ciò che in tutte le azioni vostre vi debbiate sforzar d’esser di natura dolce, clemente e benigna, acquistando l’abito di questa santa vertù, la quale ci rende simili al nostro Salvatore, che ci dice che debbiamo imparar da lui che è piacevole ed umile di core, che altro non è che esser clemente e pietoso. E se a ciascuno sta bene usar clemenza verso i delinquenti, io mi fo a credere che a le persone religiose non istia se non benissimo, e spezialmente a quelli che s’allevano e nodriscono per divenir prelati ed aver il governo di molti. Nel numero di questi sète voi, che di qui a poco tempo, col mezzo de la diligenza di madama vostra madre e col favore de le vostre vertù, attendendo come fate a le buone lettere, sapete non vi poter mancar questo onorato vescovato di Agen che per voi si governa. Curate adunque di far un buon abito in tutte le vertù morali, e massimamente in questa tanto lodata clemenza; a ciò poi non si possa da voi rimovere così di leggero. Portate anco ferma openione esser minor male assai, quando s’abbia a venir a l’ operazioni ed atti de la giustizia e de la clemenza; esser, dico, minor male a peccar in troppa mansuetudine, pietà e clemenza, che esser troppo osservatore rigido de la giustizia, che assai spesso ci fa cadere in crudeltà: vizio che in tutto dispiace agli uomini e al nostro Salvatore, il quale non solamente è alieno da la crudeltà, ma ha per propria natura d’esser misericordioso e perdonare a quelli che peccano, come tutto il dì per isperienza si conosce, pur che di core siano pentiti. E guai a noi se in Dio, ancora che sia giustizia, non superabondasse la misericordia! Il che a tutti deve esser in documento, e spezialmente a quelli che hanno il carico di governare. È dunque lodevolissima cosa a chi casca in alcun errore ed umilmente domanda perdono l’essere clemente; onde io mi do a credere che que’ dui versi, che in Campidoglio furono in marmo intagliati, ad altro fine non ci fossero posti che per ammonire i magistrati che usassero clemenzia. Erano latini, la cui sentenza in lingua nostra materna è tale: «Tu, che irato sei, rammenta che l’ira dal nobil lione, a chi gli è dinanzi prostrato, si nega esser fera.» Ora veggiamo ciò che del lione ci fu narrato in una brevissima ma nel vero ammirabile istorietta. State sano e di me ricordevole.
Alessandro Farnese, cardinale di santa Chiesa e nipote di papa Paolo terzo che novellamente è passato a l’altra vita, mandò a donare questi anni passati a Ferdinando eletto re de’ romani, tra molte altre cose rare, alcuni lioni e tigri, i quali da esso re furono graziosamente accettati. Passarono in Alamagna con stupore, per esser bestie insolite di quel paese. Il re Ferrandino, poi che alquanti giorni ne la corte sua tenuti gli ebbe e saziati i paesani de la vista d’essi animali, si deliberò di fargli condurre in Boemia, nè dando troppo indugio al suo pensiero, ordinò che condotti vi fossero. Onde per lo camino tutti i paesani correvano a lo insolito spettacolo, per veder quelle fere che mai vedute non avevano. Communemente tutte le cose nuove generano ammirazione, e da tutti, o belle o brutte che siano, sono volentieri vedute; il perchè erano astretti i conduttori quasi a forza, in ogni luogo per dove passavano, fermarsi, perciò che ciascuno aveva piacer grandissimo di veder quelle bestie. Pervennero a la fine in Boemia e, fermatisi in una città, concorreva tutto il popolo a gara a veder gli insoliti animali. Era in quella città una gentildonna, la quale avevasi allevato uno di questi cagnolini piccioli, assai bello e piacevole, il quale le era fuor di modo caro, e quasi pel continovo se lo portava in braccio. Avvenne che una sua donzella, udita la fama di questi animali, e veggendo ciascuno correr a vedergli, anco ella di brigata con altre persone vi corse. Aveva ella alora per sorte il cagnolino in braccio, il che veggendo, la madonna cominciò a garrirla e dirle che lasciasse il cane in casa, e che guai a lei se male gli interveniva. La giovanetta, accesa dal desio di veder quegli animali, se n’andò di lungo col cane in braccio. Come ella fu ove era un lione, o che piena d’ammirazione fosse e quasi fuor di sè, o che che se ne' 'fosse cagione, il cane le uscì de le braccia e corse ne le branche del lione, il quale, presolo, lo teneva e non gli faceva mal alcuno. La sbigottita giovane credette di morir di doglia, e ricordandosi de le minaccie de la padrona che sapeva amar sommamente il cane, e dubitando non esser da lei fieramente battuta, senza più starvi a pensar su, fatta per disperazion sicura, intrepidamente, con stupore di chiunque la vide, s’appressò al lione e fuor degli unghioni gli levò il cagnolino. Il lione nè più nè meno si mosse contra la giovanetta, come averia fatto una semplice pecora; il che diede assai che dire a tutti, e molti ci furono che lo attribuirono a la verginità de la giovane e a la natural clemenza del lione. A me basta d’aver narrata la cosa come fu. Voi mò investigate la cagione di questa mansuetudine.
Io mi credeva dopo il ritorno vostro da Roma che voi deveste venir a star qui con noi alquanti dì a ricrearvi un poco, e narrarci del modo che in mare capitaste in mano di quei corsari, e come poi così tosto ne foste liberato; chè, in vero, voi avete avuto una bellissima grazia ad esser uscito fuor de le mani di quegli infedeli. Del che con voi mi rallegro con tutto il core, dandovi per conseglio che un’altra volta vi guardate d’incappar in così