Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte II/Novella XXV
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ragionamento di cosa dispiacevole che impossibil è che si racconti senza compassione. Ma volendo io narrar il caso com’era successo, non poteva altrimenti fare che per simil camino non vi conducessi. Ed ancor che a me stesso dispiacesse l’andarmi tanto ravvolgendo in materia così lagrimosa, nondimeno considerando il profitto che tutti ne potranno cavare, ho narrato questa istoria molto più volentieri che qualche altra che ho per le mani, per la quale forse vi averei fatto ridere senza altro male. Debbiamo adunque tutti far ogni sforzo a noi possibile, a fine che non lasciamo dentro a’ nostri petti radicare queste così ardenti concupiscibili passioni e tanto sfrenate, perciò che il più de le volte se mandano altamente le radici entro a’ nostri fragili cori, ne inducano poi a mille disordini e di maniera ci avviluppano il cervello, che non mezzanamente convien che ci affatichiamo se vogliamo in noi ripigliar il freno dei nostri mal regolati desiderii. Perciò se farete per mio conseglio, tutti i pensier vostri e tutte le voglie fermerete a la caviglia de la ragione; il che facendo, non ci sarà periglio che l’appetito vi trasporti a far opera veruna meno che lodata. Debbiamo anco con giudizioso occhio internamente mirare con chi pratichiamo e di chi ci fidiamo, tenendo per vero e fermo il volgar proverbio: che non è ingannato se non chi si fida. Ma chi è saggio sa ottimamente far elezione di quella persona de la quale egli fidar si deve.
Se i disordini che nascono dal morbo de la irregolata gelosia non fossero manifesti, io mi sforzarei quanto nocivi siano a dimostrarli. Ma perchè so che voi gli sapete, e conoscete assai chiaro di quanti mali sia la gelosia cagione e come spesso gli indiscretamente ingelositi mariti diano occasione a le mogli di farsi poco da bene, non ve ne dirò altro. Voglio bene che il marito tenga gli occhi al pennello e che per dapocaggine sua non presti a la moglie materia d’esser trista, ma voglio anco che consideri la donna essergli data per compagna e non per schiava. E di questo ragionandosi a la presenza di madama Fregosa e questionandosi di che sorte sia l’amor del geloso, dopo molte cose da molti dette, messer Lodovico Misono, filosofo e medico eccellente, fece sovra questo un accomodato discorso ed insiememente narró una novelletta. Onde avendo io il suo ragionamento e la novella descritto e con le mie novelle accompagnato, ho voluto il tutto metter sotto il vostro nome, a ciò resti al publico come testimonio de la nostra cambievole benevoglienza e de l’amor mio verso tutta casa vostra. State sano.
Quando s’è, signora mia, detto e ridetto, io non conosco in questa nostra vita cosa più pestifera a l’uomo e a la donna com’è il morbo de la gelosia, perciò che dove egli s’attacca discaccia subito ogni contentezza e v’introduce ogni male; e poi che voi imposto m’avete ch’io dica il mio parere circa se si può amar senza gelosia e se chi è geloso o gelosa ama, io vi dirò liberamente ciò che me ne pare e quanto ne sento, sottomettendomi al giudizio di chi più sa e forse ha di me meglior parere. Dico «parere» e non «giudicio» o «sentenza», perchè se altri diranno la cosa non star così, che forse potrebbero dir la verità, non potranno almeno ragionevolmente dire che questo non sia il mio parere, affermando io che così mi pare. Dico adunque con ogni debita riverenza che a me pare che quelli che tengono che amore senza gelosia non possa essere, non abbiano buona openione, anzi che grandemente errino, ancor che cotal openione sia nel petto di molti tanto radicata che a sbarbarla ci voglia la forza d’Ercole. Onde saper devete che in quei cori ove gelosia s’annida non può in modo alcuno vero amore albergare, perciò che non può con effetto durar amore ove egli non ritruovi cibo convenevole per nodrirsi. E chi lo ciba, lo mantiene e lo nudrisce credo io che sia la confortatrice e sollevatrice d’ogni afflitto e tribulato, che si chiama «speranza». Per questo tutto quello che danneggia e guasta la bella vertù de la speranza è mortal nemico e fiero guastatore de la conservazion de l’amore. E che cosa è questa gelosia? Ella in vero è un gelato timore che i meriti e la vertù d’altri, che a noi par che sormonti e vinca il nostro valore, non ci levino fuor de l’animo de la donna amata, la quale noi come nostro ultimo fine bramiamo d’ottenere. Non sarà l’uomo geloso del suo rivale, se quello non crede e stima valer molto più di quello ch’egli vale. Il perchè la gelosia ammazza quella poca speranza, tronca quei pochi ramuscelli che in noi germogliavano e disperge il fiore sovra cui noi ci fondavamo di venir al godimento de la cosa amata, e porta ogni speme nel valore e beni del nostro concorrente o sia rivale, di tal maniera che a poco a poco quello che noi credevamo che fosse amore, come la speme è perduta, va in fumo come nebbia al vento, o vero che si converte in rabbia e furore e in sdegni, che non altrimenti ardeno e consumano quella benevoglienza che a la cosa amata portavamo, che si faccia la devoratrice fiamma il cottone poi che l’oglio o la cera che lo nodriva è mancato. Quindi procede che, morta la speranza, muore il desiderio e con quello l’amore, e niente altro questo veleno nei petti ove entra produce se non che l’avvelenato tutto il dì vede che il suo rivale gli par molto più ornato di vertù, di costumi, di valore e d’ogn’altra grazia che non è egli medesimo. Saranno forse alcuni i quali diranno che la gelosia ove s’appiglia sarà cagione che il geloso si sforzerà, per avanzar il rivale, di crescer ogni dì in vertù a megliorar di costumi e adornarsi di tutte quelle parti che lo' 'ponno render grato ed accetto a la cosa amata. Ma questo non vale, perciò che se non avesse quella gelata paura ed agghiacciato timore d’esser vinto, egli non si prenderebbe cura nè s’affaticheria per farsi più perfetto ed acquistar nuovi meriti. Ora, come già ho detto, questo non fa a proposito nè milita contra me, perciò che questo stimolo e sprone, che lo punge e sferza a voler divenir megliore, non è nativo ed essenziale a la gelosia ma per accidente, chè se le fosse proprio, sarebbe un’altra cosa. Ditemi un poco: non avete voi veduto bene spesso il male esser stato talora cagione d’alcun bene? Direte voi per questo che il male sia bene? non è egli la infermità alcuna volta cagione de la sanità? Sì, è ella, per quanto si vede, certissimamente, perciò che l’uomo che conosce essersi infermato per disordini, per cattivi cibi ed altri inconvenienti che infiniti sono ne la vita nostra, se sarà savio, per l’avvenir quei disordini aborrirà e fuggirà come il morbo. Nondimeno il male non è mai bene e l’infermità non è sanità. Sì che il più de le volte il mal fa male e le infermità ancideno gli uomini, come per isperienza tutto ’l giorno con nostro gran dispiacere veggiamo. Potrebbe forse alcuno dire non esser cosa cattiva la gelosia, ma deversi chiamar segno d’amore, con ciò sia che non si potrà mai trovare che sia nessuno geloso di quella cosa che non ama. Chi adunque, se un geloso convien per forza che d’alcuna cosa che ama geloso divenga, se non amasse averia cagione di temere? Onde il nostro ingegnoso sulmonese disse amore esser cosa piena di sollecito timore, e questa sollecita e diligentissima tèma altro non è che gelosia. Ma questo punto non mi rimoverà dal mio fermo proposito. Io non niego che amore non stia insieme con gelosia, anzi lo confesso e vi dico che dove è gelosia è anco amore. E qual è l’amore che con la gelosia alberga? Egli è veramente amore imperfetto, tronco, infermo, dubioso e d’alcune parti di ver amore manchevole. Si potrà bene con la verità in mano conchiudere che in quel petto, o sia d’uomo o sia di donna, dove amor perfetto e vero ha collocato il suo seggio, gelosia non può aver luogo. Adunque come la febre è segno di vita, perchè ella non ha albergo in un corpo morto, la gelosia è segno d’imperfetto amore. Chi sarà che presuma di dire che dove è perfetta e sana vita ci sia febre? Egli si sa pure che la febre non può aver luogo, come s’è detto, se non in corpo vivo; nondimeno ella non resta di tormentarne e più tosto a morte che a vita ci mena, se l’uomo non usa i convenevoli rimedii. Il medesimo fa la gelosia, la quale com’è abbarbicata nel core d’un amante ed egli la lascia dominare, il più de le volte lo guida ad odio più tosto che ad amore. Onde si può veramente dire che il regno d’amore in tutti i suoi confini non ha più orrendo mostro, più pestilente aere nè serpe più velenoso di questo morbo e di questa gelosia. E qual in effetto è più fastidiosa e tormentata vita di quella d’un geloso? Egli non solamente s’afflige, si crucia, si rode e sempre dimora immerso in continovi travagli e dolori, perdendone il cibo e il sonno e ogn’altra quiete; ma tormenta e perturba ognora quella persona che dice amare più che le pupille degli occhi suoi, e a quella con sue agre rampogne, con suoi rammarichi, con invenzion nuove ed amare querele, con gran sospiri e gelate paure mai non lascia aver un’ora di quiete. Or vedete se questo pestifero morbo è fuor d’ogni misura penetrativo e crudele e se acceca in tutto col suo veleno il core ove egli può penetrare, chè il misero geloso sofferirebbe più tosto di veder la sua amata esser mendìca e andar d’uscio in uscio cercando il pane per vivere, che vederla fatta reina col favor e mezzo del suo rivale. Non vi par egli che questo sia un bello e buon amore? Da questo disordinatissimo volere misurate tutto il resto. Insomma egli è tale l’amor del geloso che ei non vorrebbe che la sua donna piacesse a nessuna persona del mondo eccetto a lui solo, e non può patire che parli con' 'altri, che rida, che scherzi e che mai si prenda piacer alcuno se non con esso lui. Credete voi che egli ami quelle vertù e quelle doti che sono in lei, per le quali esso la sente a questi e a quelli lodare, commendare e celebrare, non essendo egli buono a far nessuna di queste opere? Certamente ei punto non le vede nè ode volentieri, e meno l’ama, anzi odia, e vorria che da tutti fosse sprezzata e fuggita come il morbo. Cotali adunque sono gli effetti che genera la gelosia. Ma per il contrario il vero e perfetto amore cria ne la mente de l’amante questo generoso e lodevol desiderio e ve lo nudrisce tuttavia, perchè egli brama che la sua donna sia da tutti lodata, riverita, celebrata e stimata la più bella, leggiadra, vertuosa e costumata donna del mondo. Avete anco a sapere che dove è il compìto e da ogni banda perfetto amore, v’è anco una ben salda e ben fondata speme che, di continovo viva e verde, discaccia e rompe ogni tèma, perchè la perfetta carità manda il timor fuori e mai non gli lascia far radice nè che in modo alcuno possa germogliare. Per questo il vero amante gode, giubila e trionfa quando ode che altri la donna sua magnifica ed essalta, ed egli stesso va cercando i lodatori che la celebrino e la levino con gli scritti loro sovra le stelle. Si può adunque ragionevolmente conchiudere e con la chiara verità in mano affermare che il più fiero, crudele, inumano e barbaro nemico non farebbe peggio ad una donna di quello che facesse un geloso, il quale, se possibil fosse, vorrebbe veder l’amata sua ne l’abbisso d’ogni calamità e miseria e da ciascuno a morte odiata, a ciò che ella a lui solo s’umiliasse, nè altro avesse che soccorso le porgesse se non egli. Ora per finir questo proposito ed entrar in altri ragionamenti più piacevoli, vi dico non esser cosa al mondo che più convenga al viver de l’uomo quanto si faccia l’amicizia e conversazione de le persone. Di questa già s’è detto che il geloso priva l’amata, perchè non vuole che con persona parli, che si domestichi con nessuno e che solamente con lui conversi. Chi vorrà dunque dire che un ammorbato di gelosia ami altrui nè se stesso? Certo, che io mi creda, nessuno. Ma veggiamo un poco una strana novella che in Provenza ad un geloso avvenne, per quello che già mi narrò un nostro provenzale essendo io in Avignone. Fu adunque in una città di Provenza un gentiluomo, dei beni de la fortuna abondevolmente ricco e quasi il primo de la città. Egli ancor che avesse alcune castella, nondimeno, contra il commun costume de la patria, dimorava assai più volentieri ne la città che fuori. Pigliò costui per moglie una gentildonna de la contrada, giovane molto bella ed avvenevole e a cui piaceva troppo lo star in compagnia e scherzar con tutti, perchè, essendo scaltrita e parlando bene, e molto ricca di propositi, le pareva trionfare ogni volta che ella veniva a parlamento con chi si fosse, e lo proverbiava e motteggiava. Era poi facetissima, e se talora se le lava da alcuno la baia, ella punto non la rifiutava, ma sforzavasi con qualche bel motto rintuzzar l’acutezza de la proposta, e se non le veniva fatto, se la legava, come si dice, al dito ed aspettava il tempo di vendicarsene piacevolmente. Insomma ella volentieri dava il giambo e lo voleva. Il marito a cui punto non piacevano i modi de la moglie, parendo a lui che ciascuno che parlava seco ne fosse innamorato e chi la mirava volesse rubarla, divenne sì fieramente di lei geloso che giorno e notte mai non riposava, e di continovo l’era a lato, nè senza lui permetteva che quella facesse un passo od a chiesa o dove andar volesse. La donna conoscendo la gelosia del marito e giudicando che da altro non nasceva se non da una dapocaggine che in lui era, perchè nei servigi de le donne nulla valeva ed una volta ogni dui mesi a pena le rendeva il debito matrimoniale, deliberò di pagarlo di quella moneta che egli meritava. E perchè è la costuma del paese che tra gli uomini e le donne s’usa grandissima domestichezza, come anco vedete far in queste bande, era il geloso da ciascuno biasimato e fu anco da molti agramente ripreso. In casa poi ogni dì con grandissimo romore erano a le mani, ed altro che gridar non si sentiva, perchè il marito non averebbe voluto che ella fosse andata fuori, ed ella a mal grado di lui andava ove più le piaceva, e ragionava e scherzava con tutti, seguitandola perciò sempre il marito. Tutta la famiglia teneva con la donna, perciò che il viver del padrone dispiaceva a tutti, che non solamente con la moglie ma con il resto de la casa era fuor di modo fastidioso. Ora la donna, deliberatasi di non stare in sì noiosa vita senza qualche trastullo, mise gli occhi a dosso ad un giovine nobile de la contrada, che in Francia «cadetti» si chiamano, perchè restando i primogeniti signori, gli altri che «cadetti» sono nomati hanno certa parte del patrimonio, chi più a chi meno secondo le varie consuetudini e leggi de le provincie. Era il detto giovine molto costumato e vertuoso, ed oltra le buone lettere si dilettava mirabilmente de la musica, cantava bene la sua parte e sovra d’ogni strumento. Questi mirabilmente a la moglie del geloso piacque, la quale in breve con cenni, atti e parole gli fece conoscere che volentieri seco si sarebbe domesticata. Il giovine, che avveduto era e a cui la donna molto piaceva, punto non la recusò, ma cominciò più de l’usato con lei a conversare e parlar di secreto, di sorte che scopertosi insieme i lor amori, altro non attendevano che aver alcuna comodità di poter ingannar messer lo geloso, il quale di rabbia e di stizza si consumava veggendo questa insolita domestichezza dei due innamorati. Egli più volte ne garrì la moglie, ma cosa che dicesse o facesse niente montava. Aveva il geloso un servidore in casa del quale più che di niuno altro si confidava, e a lui lasciava tener la notte le chiavi de la porta de la casa. Parve a la donna se trovava modo di corromper costui, che di leggero le verrebbe fatto di ritrovarsi col suo amante. Il perchè cautamente data la commissione a l’amante che tal ufficio facesse quando il servidore andava per la città a comprar le cose per il viver di casa, ne seguì il desiderato effetto, perchè con san Giovanni bocca d’oro in mano l’amante l’indusse a far il tutto. E così la notte l’amante era in casa intromesso, e la donna, quando sentiva il marito dormire, chetamente da lato a lui levavasi e andava in una camera a ritrovar il suo amante, e una e due ore con lui si trastullava: durò questa pratica qualche mese con gran piacer di tutti due, ed essendosi tanto insieme domesticati, la domestichezza crebbe di modo che più e più volte a la presenza del geloso facevano degli atti che averebbero dato sospetto a ciascuno, non che al geloso che era il sospetto stesso. Onde fatti certi pensieri tra sè con poco discorso e men giudizio, il tutto con il servidore conferì, che stimava esser fidatissimo. Egli a l’amante il caso comunicato, e da lui a la donna detto, attendevano che il geloso il suo sciocco pensiero mandasse ad effetto. Aveva il geloso deliberato di nascondersi sovra il granaro fingendo di voler andar ad un suo luogo fuor de la terra, e poi la notte discendere a veder a l’improviso ciò che la moglie faceva, perchè tra sè s’aveva fatto questo pensiero, che non l’abbandonando mai di giorno nè di notte, ella non potesse far cosa alcuna, ma che solamente potesse dar ordine se il marito non ci fosse di far qualche cosa. Ora levatosi una mattina per tempo, disse a la moglie: – Egli mi conviene cavalcar fuori per tre o quattro giorni per alcuni affari che sono occorsi. Tu attenderai bene a le cose de la casa, ed avvertisce a non andar in vicinanza, ma starai ne la tua camera. Ed anco se vien nessuno a vederti, fa dir loro che tu ti senti male. – Disse la donna che farebbe il tutto e non si mosse di letto. Il buon geloso, mandate fuor tre dei servidori e imposto loro ciò che voleva che facessero, andò a chiudersi sovra il granaio ed ordinò al servidore di cui si fidava che non chiavasse l’uscio, ma lo lasciasse senza fermarlo. La donna, levatasi, cominciò andar per la casa' 'dicendo che poi che il marito non ci era, voleva il debito che ella avesse buona cura de la casa. Andando adunque in questo luogo e in quello come se ben diligente madre di famiglia divenuta fosse, pervenne a l’uscio del granaio, e dato de la mano in quello e trovatolo aperto, disse ad alta voce a ciò che il marito la sentisse, una gran villania al servidore che le chiavi teneva. – A la mia fè, – disse, – dapoi come monsignor venga, io gli farò intender il tuo buon governo che tu hai de le cure nostre. Da’ qua queste chiavi, uomo da poco che tu sei. – E dato de le mani a le chiavi che egli a cintola aveva, quella gli levò, dicendo che le voleva tener fin che il marito tornasse. E quivi di nuovo fattogli un grandissimo romore in capo, chiavò l’uscio e se ne venne giù. Messer lo geloso, sentendo questi rumori, giudicò la moglie esser da bene e diligente e molto si rallegrò. Da l’altra banda non sapeva come farsi a desinare e meno come uscir fuori del granaro, perchè non avendo il suo servidore le chiavi non gli poteva, come aveva ordinato, recar il mangiare nè aprirgli. L’amante de la donna quel dì venne a desinar con lei vi stette tutto il giorno e la notte, dandosi il meglior tempo del mondo e ridendo insieme con il servidore del geloso, che non aveva che mangiare se non mangiava il gran crudo. Sapendo poi la donna e così il servidore come il geloso era sovra modo pauroso del fuoco e che cosa al mondo tanto non temeva, volle che il dì seguente a buon’ora tutti i letti de la casa si rinovassero di paglia nuova, allegando che la vecchia era piena di cimici. Il che subito si fece. Ed avendo fatto gettar i pagliarecci vecchi a basso nel cortil de la casa, volendo che i cimici s’abbrusciassero fece porgli il foco dentro. Era di buon matino, ed avendo il geloso male la notte dormito, essendosi gettato sovra una quantità di grano che era in un cantone, cominciò alquanto a riposare; ma ardendo la paglia e lo splendor del fuoco entrando per le finestre del granaio, fu cagione che il geloso si destasse. Egli, come vide questo, a la finestra corse, e veggendo tutto il cortil ardere nè sapendo discernere che cosa fosse, credette che tutta la casa s’abbrusciasse. E sapendo che l’uscio era chiavato e che non poteva uscire, dubitando non abbrusciare colà dentro nè occorrendoli ciò che potesse fare, affacciatosi a una de le finestre che su la strada aveva la vista, volse più tosto porre a rischio di rompersi le gambe o fiaccarsi il collo che star a discrezione del fuoco. Onde saltò giù ne la strada, ed essendo il salto grande, si ruppe una gamba ed un braccio e tutto di dentro in modo si scosse che quasi alora morì. Passavano alcuni per la contrada, i quali, veduto questo, picchiarono a la porta e dentro lo portarono. La moglie mostrandosi la più dolente donna del mondo, piangendo e gridando, mandò a chiamar i medici, i quali giudicarono che essendo tutto di dentro sfondato, che poco poteva campare e che s’attendesse a l’anima, poi che il corpo era perduto. Il misero geloso fece testamento e, non avendo figliuoli, lasciò la moglie universal erede di tutto, e confessato se ne morì. La donna, passato l’anno, nel suo amante si maritò, col quale buon tempo fin che vissero si diede. Cotale adunque fine ebbe chi s’era fuor di modo ingelosito.
Si leggeva a la presenza de la sempre con prefazione d’onore meritevolmente da esser nomata, la valorosa ed umanissima signora Ippolita Sforza a Bentivoglia l’opera latina de l’eloquente messer Giovanni Simoneta, che egli già compose dei fatti ed opere militari del glorioso Francesco Sforza, primo di questo nome duca di Milano, che con l’arme a singolar prudenza a sè e ai suoi che vennero dopo lui partorì quell’amplissimo dominio, se i figliuoli a nipoti avessero saputo imitar i vestigii e modo di quello. E chi l’opera leggeva era messer Girolamo Cittadino, molto ne la lingua latina a volgare essercitato. Ora, nel processo del leggere, si venne ad un generoso e notabil atto da esso Francesco fatto quando egli guerreggiava prima che s’avesse acquistato il ducato di Milano. E l’atto fu tale, che essendogli stata dai suoi soldati condutta al padiglione una bellissima giovane da quelli ne le terre dei nemici presa, a ciò che con quella si prendesse amorosamente piacere, essendo egli uomo bellissimo e a le dilettazioni veneree molto inclinato e disposto, e già quella avendo cominciato lascivamente a basciare, sentendosi svegliare il concupiscibile appetito, nondimeno dando il senso luogo a la ragione da quella s’astenne. Era la giovane, come s’è detto, bellissima di corpo ed oltra a questo,