Novelle (Bandello, 1853, II)/Parte I/Novella LVI
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indicibile esser si vede quell’amplissimo e di venerabili vecchi ripieno senato, del quale si potrebbe con verità affermare ciò che del senato romano Cinea ambasciadore di Pirro re di Epiro era solito dire, cioè che era un senato di molti regi. Ma io non mi mossi già a scrivervi per empir il foglio de l’eccellenze infinite che sono in quella eccellentissima città, ma presi la penna in mano per darvi nuova come da Vinegia era tornato a Milano per Dio grazia con buona sanità. E perchè mi saria paruto cascar in grande errore a ritornar da così ricca città senza recar cosa alcuna di nuovo, v’ho portato una meravigliosa novella che io essendo in Vinegia intesi e subito scrissi. Trovai quivi il gentilissimo messer Galeazzo Valle vicentino, uomo che in Levante per quei mari lungamente ha navicato, e suole spesso cantando a l’improviso ne la lira dar agli ascoltanti grandissimo piacere con le sue belle invenzioni in diverse rime. Eravamo un dì nel palazzo grande di casa Foscari col magnifico messer Aloise Foscari e fratelli, padroni del palazzo. Quivi esso messer Galeazzo avendo secondo i soggetti che gli erano dati, cantato su la lira molte belle cose, e ragionandosi de le cose che egli in Levante veduto avea, tra molti ragionamenti che fece, narrò una meravigliosa istoria avvenuta in un’isola del mar Egeo, la quale a tutti sommamente piacque. Onde ora ve la mando, avendola al nome vostro scritta. Voi ne farete copia ai nostri communi parenti, al dotto messer Girolamo ed a messer Enrico Bandelli. State sano.
S’io mi metterò a narrarvi le cose da me vedute nel tempo che io ho navigato per i mari di Levante, e voi averete assai che fare a prestarmi sì lungamente l’orecchie ed io in cicalare non saperei così di leggero ridurmi al fine, perciò che nel vero ho veduto ed udito assai cose degne per molte lor qualità d’esser raccontate. Tuttavia poi che me lo comandate, io alcune ne dirò; ma prima io vo’ dirvi una molto strana consuetudine che al tempo dei romani s’osservava in una de l’isole del mar Egeo, e udite come. Idrusa che ai nostri giorni da’ naviganti è chiamata Cea o Zea, è isola de le Cicladi già di belle e popolose città copiosa, come le rovine a chi navica dimostrano. Era anticamente in essa isola uno statuto assai strano che per molti secoli intieramente fu osservato, il quale, per quello che se ne legge, era tale. Qualunque persona in detta isola abitante, fosse di che sesso e condizione si volesse, a cui per vecchiezza, infermità od altro accidente rincrescesse più vivere, poteva eleggersi quella sorte di morire che più le piaceva, mentre perciò ad un magistrato a questo dal popolo eletto manifestasse la cagione che a non voler più restar in vita l’induceva. E questo ordinarono a ciò che apparisse che le persone volontariamente la morte si davano. Il perchè tutto il dì uomini e donne assai molto arditamente e con lieto viso andavano a la morte, come un altro sarebbe ito nozze. Ora avvenne che il magno Pompeo navigando per l’Egeo capitò a Idrusa. Quivi di nave uscito, intese dai paesani l’usanza che ne l’isola si manteneva e come quell’istesso giorno deveva una venerabil madrona che sempre onoratamente era vivuta, avendo già ottenuta licenzia dal magistrato, avvelenarsi. Restò Pompeo senza fine pieno d’ammirazione, parendogli assai strano che così di leggero devesse volontariamente una persona ber il veleno, onde comandò che la predetta madrona gli fosse menata dinanzi, essendogli da tutti stato detto che a ciascun, grande e picciolo, dispiaceva la morte di così vertuosa donna. Come fu venuta la donna, poi che Pompeo ebbe da lei risolutamente inteso com’ella era deliberata di non più voler vivere, si sforzò egli con quelle più efficaci persuasioni che seppe, essortarla che non si volesse avvelenare, ma tanto che era sana ricca e ben veduta dai grandi e dai piccioli del suo popolo, attender a vivere e rimaner in questo mondo fin che naturalmente venisse il tempo del morire. Ma tanto non seppe egli dire nè così efficacemente persuaderla che dal suo fiero proponimento la potesse rimover già mai. E perseverando pur Pompeo con nuove e valevoli ragioni per indurla a vivere, ella poi che assai e pazientemente ascoltato l’ebbe, in questa maniera con chiara voce ed allegro sembiante gli rispose: – Tu sei, magno Pompeo, grandemente errato se forse ti persuadi che io senza considerazione grandissima e molto maturo conseglio a far questo ultimo fine mi sia mossa. Io so, e di questo non ho dubio alcuno, che naturalmente ciascuno appetisce la prolungazione de la vita e per il contrario aborre il morire come distruttivo del vivere. E su questo io ci ho più e più volte pensato e fatti tutti quei discorsi che cotal caso ricerca. E tra le molte considerazioni che meco pensando assai sovente ne l’animo mio ho discorse, mi s’è rappresentata l’instabil e volubil fortuna, la cui raggirata ruota si va di continovo rivolgendo, nè mai ferma un tenore dura. Si vede tutto il dì che ella essalta e leva uno dal profondo de l’abbisso a l’altezza del cielo, donandogli quante ricchezze egli sappia desiderare. Un altro poi che era felicissimo ed a par degli dèi al mondo onorato, e a cui nulla di bene mancava a potersi chiamar in questa vita beato, in un subito e di roba e d’onore privando, fa diventar povero e mendìco. Colui si truova ricco e sano, con bella moglie e bei figliuoli a lato, e vive in festa e in gioia; ma questa fortuna devoratrice de le nostre contentezze priva colui de l’inestimabil tesoro de la sanità, fa che la bella moglie altrui più stima che il marito e diventa adultera, e col suo velenoso dente di maniera morde i figliuoli, che in breve tempo tutti miseramente se ne muoiono, di modo che il misero uomo si truova privo di quei figliuoli che disposto aveva dopo morte lasciar dei suoi beni eredi. Ma che vado io perdendo le parole in voler far chiara la volubilità de la fortuna, che è più chiara assai che il sole e de la quale tutto il dì mille e mille essempi manifestamente si vedeno? Piene se ne veggiono tutte l’istorie de le genti, e il paese de la Grecia ne può far ampissimo testimonio, ove tanti eccellenti uomini che col dito toccavano il cielo si sono veduti in un momento tornar al basso, e tante gloriose città che tanti popoli reggevano ora a la tua città romana servire. Ti può, magno Pompeio, di queste dannose mutazioni la tua Roma esser lucidissimo specchio, e tanti tuoi cittadini per il passato ed al presente abondevolmente fartene fede. Ma tornando a casa, ti dico che trovandomi io esser vivuta molti anni, nè so per qual sorte, in grandissima prosperità e mai non aver sofferto avverso caso fortunevole nessuno, ma che sempre di bene in meglio sono andata fin a questo dì, ho gran paura che questa fortuna, pentita di essermi stata così lungamente favorevole, non cangi stile e cominci oggimai nel mio dolce vivere a sparger le sue velenose amarezze e farmi bersaglio dei suoi pungenti e nocivi strali. Per questo ho maturamente deliberato levarmi fuor de la giurisdizione de le sue forze e degli infortunii suoi ed infermità noiose e gravi che a noi mortali miseramente soprastanno. E credilo a me, magno Pompeio, che molti in vecchiezza con poco onore hanno lasciata la vita, che se ne la giovinezza fossero morti morivano senza fine gloriosi, e sarebbe la fama loro eternamente appo i venturi secoli chiarissima durata. Pertanto, signor mio, per non fastidirti più con mie lunghe parole, lasciami seguir la mia deliberata disposizione e volontariamente levarmi fuor d’ogni periglio, perchè talora e bene spesso il peggio è vivere troppo. – E detto questo, con ammirazione e compassione di quanti ce n’erano, intrepidamente bebbe una gran coppa di veleno che seco recata aveva e non dopo molto se ne morì. Cotale era la strana usanza che in Idrusa s’osservava. Ma poi che così attentamente m’ascoltate, un’altra cosa mirabile vi narrerò che intesi esser stata ne l’isola di Samo nel mare Icario. Questa è quella Samo ove era il famoso e cantatissimo tempio di Giunone e dove a quei tempi si faceva tanta copia di bellissimi vasi. S’afferma che al tempo antico erano nel mezzo de l’isola alcuni orti bellissimi, pieni d’arbori che fanno i pomi in grandissima abondanza. E quando essi pomi erano maturi ed in esser da mangiarsi, poteva qualunque persona entrar dentro quegli orti e tanti pomi mangiare quanti voleva. Ma non era lecito a nessuno portarne fuori d’essi orti pur un solo, perchè non era possibile poter da quegli orti partirsi. Ora avendovi raccontate due cose mirabili, perchè, secondo il detto del poeta, Iddio del numero dispari s’allegra ed il ternario è sacro, passarò da le due a le tre cose mirabili. Vi dico adunque che nel mar Tirreno è un’isola chiamata Etalia, distante da terraferma circa cento stadii, ne la quale, per quello che riferisce Diodoro, erano le minere del ferro per dui accidenti molto mirabili, con ciò sia cosa che dai cavatori spesse fiate vòte, in termine di certo tempo cresceva il ferro e le cave come di prima si riempivano. L’altra meraviglia è che dentro l’isola il ferro ne le fornaci cotto, distillato non si poteva ridurre in massa per modo alcuno se non si portava in terraferma, ove dopoi si riduceva in quelle forme che l’uomo voleva. E come il ferro in Etalia cresce, in Paro, isola de l’Illirico famosissima per la nobiltà del candido marmo, cresceva esso marmo ne le fesse. Scrive Plinio che in dette lapidicine di Paro essendo rotto un pezzo di marmo, vi si trovò nel mezzo l’imagine di Sileno. Ma per non star tutt’oggi in mare, smonterò sul Padovano e vi dico che in Lipia nel contado di Padova grandissima quantità di sassi si suol cavare, e tanti quanti indi se ne cavano sempre altri tanti di nuovo rinascono, di modo che il luogo non si truova vòto già mai. Ora chi volesse de le meravigliose opere de la dedalea natura parlare, troppa fatica prenderebbe e così di leggero non si verria al fine.
Io rivolgeva questi dì molte de le mie scritture che in un forziero senz’ordine erano mescolate sì come a caso quivi dentro erano state gettate. E venendomi a le mani alcune mie novelle che ancora non erano state trascritte nè collocate sotto la tutela d’alcun padrone o padrona miei, restai forte smarrito che ancora a voi nessuna donata ne avessi, avendone di già dedicate a questi ed a quelle più d’un centinaio; onde me stesso accusai di trascuraggine ed inavertenza grandissima, che tanto tardato avessi a mandarvene una in segno de la mia riverenza ed osservanza verso voi. Chè certamente io mi confesso degno di castigo non picciolo, essendo troppo al mondo manifesto il debito ed obligo che io ho a la felice ed onorata memoria del valoroso signor Pirro Gonzaga e de la gentilissima signora Camilla Bentivoglia, vostri onoratissimi padre e madre, che tanto m’amavano e tutto il dì con nuovi beneficii m’obligavano, e mentre vissero furono da me secondo le debolissime forze mie sempre tenuti in quella riverenza che io seppi la maggiore, come ne le stanze mie si vederà che io in lode ho composte de la vostra nobilissima sorella dal mondo riverita e da me santissimamente amata, la signora Lucrezia, le quali in breve saranno publicate, ove anco vederete il nome vostro essere celebrato. Ora per emendar il fallo da me commesso, ve ne mando una d’esse mie novelle, la quale già lungo tempo è che dentro le case del signor Lucio Scipione Attellano fu narrata da messer Niccoloso Baciadonne, che molti anni nel regno d’Orano aveva mercadantato e ricercate assai regioni e luoghi di Affrica. Egli per esser uomo che di molte cose rendeva benissimo conto e molto agli auditori da cui volentieri era ascoltato sodisfaceva, essendo in Milano ed avendo col gentilissimo Attellano cenato, a la presenza d’alcuni altri gentiluomini che di brigata erano, la narrò. Per questa novella, signora mia, voi conoscerete che anco sovente tra le nazioni barbare s’usano de le lodevoli cortesie. Degnate adunque con la solita vostra umanità e gentilezza accettarla e farmi questo favore che io del vostro nome possa prevalermi. E basciandovi le dilicatissime mani, ne la buona grazia del valoroso vostro consorte, il signor Rodolfo Gonzaga marchese, e vostra, inchinevolmente mi raccomando. State sana.
Non accade, signori miei, usar meco queste preghiere con tanta cortesia ed umanità a ciò che io alcuna cosa notabile di quelle che in Affrica ho vedute vi narri, oltra quelle che già da me udite avete, chè cose pur assai d’essi affricani e dei costumi loro e de la varietà de le lor religioni v’ho dette. Essendo adunque io prontissimo di farvi cosa grata, vi dico che quando io era fanciullo, non passando ancora quindeci anni, mi partii da Genova mia nobile e famosa patria ed in compagnia di messer Niccolò Cattanio gran mercadante navigai in Barbaria, e seco arrivai nel regno e città d’Orano posta sul mare Mediterraneo, ove praticano assai i nostri genovesi e v’è una contrada nomata da tutti la «loggia dei genovesi». Era il Cattanio in grandissimo credito in quella città e molto accetto al re di quella, ed aveva molti privilegii ed immunità ottenute da lui, il perchè mercadantava e maneggiava gli affari suoi con grandissimi avantaggi. Quivi io molti anni dimorai ed appresi benissimo la lingua loro e medesimamente i lor costumi, onde insieme con alcuni mercadanti oranesi, uomini affabili ed umani, essendo a quelli per mezzo del Cattanio raccomandato dal re, mi disposi andar negoziando per l’altre provincie de l’Affrica. E passai per diversi paesi e vidi molte grandi cittadi assai popolose e civili, in molte de le quali ci sono collegii per scolari ove sono i lor lettori di varie scienze che dal commune sono salariati. Ci sono ancora diversi spedali dove i poveri che vanno mendicando sono con una gran carità ricevuti e provisti del vivere, estimando essi acquistar grazia infinita appo Dio de le elemosine che fanno. Io veramente assai fiate ho ritrovato più carità e cortesia in molti di loro che talora non ho fatto tra i nostri cristiani. Fui in una gran città, edificata, per quanto mi dissero alcuni cittadini di quella, al tempo del re Mansor che anco era pontefice di Marocco. Essi mi mostrarono una lor cronica, perchè son molto diligenti in scrivere e tener memoria di tutte le