Novella di Marabottino Manetti/Avvertimento
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AVVERTIMENTO
La Novella che pubblichiamo è tratta fedelmente da un Codice cartaceo in 4.° del Secolo XV. della Libreria Magliabechiana, classe VIII n. 1414; ed ha per autore un Marabottino Manetti che la indirizzò a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, conforme si legge a piè della stessa Novella.
Intorno alla persona di questo Marabottino ben poco ci è venuto fatto raccogliere, per quanto ne abbiamo cercato con diligenza. Solo ci rendemmo certi ch’e’ nacque in Firenze di Tuccio di altro Marabottino Manetti ai 4 settembre del 1435; e visse sin oltre l’anno 1500, moltiplicando in figliuoli che ascesero ai primi onori della Repubblica. Egli fu per avventura fratello di quell’Antonio di Tuccio Manetti, stato più volte de’ Signori, e Gonfaloniere di giustizia nel 1495, che tolse a dichiarare il sito e la forma dell’Inferno di Dante; il frutto dei cui studi su tale argomento venne in luce dopo la morte di lui per opera di Girolamo Benivieni in forma di dialogo, impresso la prima volta innanzi alla Divina Commedia stampata in Firenze da Filippo di Giunta il 1506; e a cui toccò la ventura di avere a difensore il gran Galileo contro le opposizioni del Vellutello lucchese.
Del valor letterario del nostro Marabottino non trovammo ricordo, salvo quel poco che lasciò scritto di lui Giovanni Cinelli nell’opera che serbasi manoscritta nella Magliabechiana col titolo: la Toscana letterata ovvero Istoria delli Scrittori fiorentini, nella quale a pag. 1202 ei lo dice poeta, autore di diverse rime; ed accenna pur anche alla presente Novella, citando sì di quelle come di questa i codici in cui si leggevano, appartenenti alla libreria del sen. Carlo Strozzi: forse quei medesimi che oggi stanno nella Magliabechiana dove appunto passarono i manoscritti strozziani, salvo che i numeri citati dal Cinelli non riscontrano esattamente con quelli segnati in antico nei presenti Magliabechiani.
Sul merito di questa Novella non ci distenderemo in parole, perocchè quanto a noi il giudizio nostro sta nel fatto stesso della presente pubblicazione; quanto agli altri ci confidiamo che come ella è paruta a noi delle più belle e gustose che si scrivessero di quel secolo, così non voglia parerne diversamente a quei che la leggeranno, per poco che prendan diletto di siffatte letture.
E per dire dell’opera nostra, noi ci attenemmo strettamente alla lezione del Codice, di cui anche ci piacque mantener la grafia, ben sapendo come oggi le antiche scritture si vogliano dai più nella forma nativa, e a così dire, nei vecchi lor panni, anzichè racconce e vestite alla moderna. Onde salvo il regolare la interpunzione secondo che veniva richiesto dalla chiarezza, e il disgiunger parole che si leggevan legate nel testo, non ci permettemmo verun muramento; e nemmeno rispetto a certe terminazioni, che per esser oggi fuori dell’uso, per poco dai meno esperti potevan prendersi per isconci di stampa. Così, a modo di esempio, sul bel principio lasciammo benivole, che altri avrebbe forse mutato in benevolo, come forma speciale non rara in antichi scrittori, i quali si piacquero di piegare alla terza declinazione parecchi nomi tanto sustantivi, quanto aggettivi ed anco propri, che sarebbero appartenuti alla seconda, dando loro la terminazione in E, anzichè in O. Il qual uso rimase vivo in alcune voci, come, a non uscire nel caso nostro dagli aggettivi, in fine, leggiere, fraudolente, macilente ec. per fino, leggiero, fraudolento, macilento: e tutto dì udiamo nella bocca del nostro popolo lente, a rilente, violente, in vece di lento, a rilento, violento, ed altre di questa maniera.
Del resto nel dar fuori questa Novella non omettemmo diligenza ond’ella dovesse riuscir gradita agli amatori di siffatte curiosità letterarie, in servigio dei quali e a nostro diporto divisammo di pubblicarla.