Notizia d'opere di disegno/Prefazione dell'editore
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PREFAZIONE
DELL’EDITORE.
Spesse volte rivolgendo io gli spogli e le copie, che ne’ primi anni della giovanezza dagli autografi di Apostolo Zeno, e da’ codici a penna, che quel grand’uomo raccolse, di farmi ho preso diletto; nell’abbattermi in questa Notizia, la quale appunto da uno di que’ codici allora trascrissi, sempre dispiacere sentiva, che in pubblica luce non l’avessi mai tratta. Di giovamento singolare ella parevami per avere indizio d’opere di disegno affatto perdute, per iscoprire o fondatamente discernere gli autori d’altre tuttora esistenti, per illustrare maggiormente il merito d’artefici già rinomati, per far conoscenza d’altri disconosciuti, per accrescere il numero degli amatori e promotori delle arti belle, e dare risalto al favore ch’essi vi hanno prestato; per avere in somma un nuovo apparato di certe e interessanti memorie, onde arricchire l’istoria di quelle nobili discipline, le quali in ogni bene costituita città vogliono essere coltivate e protette. Forte stimolo mi si aggiungeva a fare quest’edizione dal vedere, che dopo ancora d’essere stato posto in chiara veduta da scrittori celebri il fervore de’ Veneziani nell’accogliere e favorire le arti stesse, e nell’instituire gallerie di pitture e musei di anticaglie, nuove ricordanze degne di esser sapute questo scritto medesimo pure porgeva; per le quali viensi a indubitatamente conoscere che su questo fatto non se ne sa poi tanto, da credere che molto ancora non ne rimanga all’oscuro.
E, per vero dire, quale e quanto grande complesso di notizie, o già divolgate, o recondite, non fa d’uopo che si esponga, se questo argomento con piena scrittura trattare si voglia! Da rimotissimi tempi cominciò in Venezia l’arte del dipingere; siccome ognuno conosce, per poco che dell’antichità della scuola nostra informato sia. Di quella si servirono li buoni antichi per abbellire le chiese, e insieme per mettere dinanzi agli occhi de’ fedeli le istorie principali della Religione, non che per adornare le abitazioni private, seguendo in questo l’universale costume: ma usaronla ancora sino dal secolo tredicesimo per tramettere all’età seguenti la rimembranza degli avvenimenti gloriosi della Repubblica, facendo dipingere nel palazzo pubblico la venuta di Papa Alessandro III. a questa città (Sabellico, Enneades Marci Antonij Sabellici ab orbe condito ad inclinationem Romani Imperij, Lib. XVI. Sanudo, Vite de’ Dogi, p. 538. Bardi, Vittoria navale ottenuta dalla Republica Venetiana contra Othone, p. 64.). Quanto poi a monumenti antichi, non aspettarono eglino a farne conto e a raccoglierli quando, ricondotte le lettere e le arti a buona coltura per tutta Italia, biasimo ne veniva a coloro che la patria sprovveduta di essi e disadorna lasciavano, piuttosto che lode singolare a quelli che adoperavansi nel farne incetta: ma sino dal principio del secolo stesso, profittando dell’acquisto di Costantinopoli, parte nobilissima dello spoglio loro hanno voluto che consistesse in opere antiche d’arte e suppellettili specialmente per lavoro preziose; le quali siccome retaggio legittimamente avuto, con giusta ambizione dalla posterità conservate sino a’ tempi nostri, famose divennero e ricercate.
Nel secolo che venne appresso tanto era invalso l’uso della pittura, che all’occasione della fiera dell’Ascensa da’ nostri e da’ forestieri commercio anche di quadri far si soleva (Zanetti della Pittura Veneziana p. 4.). Con raro esempio poi statue, pitture, disegni, medaglie antiche, e altre sì fatte cose qui s’avevano in pregio, e straniere persone venivano a provedersene; siccome fece Oliviero Forzetta cittadino di Trevigi assai ricco, di cui certi Ricordi di proprie faccende dall’eruditissimo Sig. Canonico Avvogaro dati al pubblico ciò comprovano manifestamente (Trattato delle Monete di Trevigi, p. 151.). Notabile cosa è, che nel 1335. quel Trivigiano qui cercasse quattro puttini di marmo, tagliati fuori da un’antica scoltura di San Vitale di Ravenna: Item quæras de quatuor pueris de Ravenna lapideis, qui sunt taglati Ravennæ in Sancto Vitale. V’è perciò buon argomento da poter credere che sino da allora trasferiti fossero stati a Venezia que’ due bassirilievi di marmo Pario con quattro puttini, forniti dello scettro di Giove e della spada di Marte, che collocati poi furono nel coro della chiesa di Santa Maria de’ Miracoli, ove tuttora si veggono; i quali lasciò scritto il Sansovino che molti anni addietro da Ravenna s’erano portati, e si attribuivano a Prassitele (Descriz. di Venezia p. 63. ed. 1581.). Bella cura certamente si è presa colui che questi fanciullini avere ci fece; perciocchè di antico e stupendo lavoro sono essi comunemente riconosciuti; e vuolsi ancora che Tiziano nella insigne palla di San Pietro Martire gli ricopiasse. Non sono però quei medesimi che il predecessore mio chiarissimo Antonio Maria Zanetti (Lib. cit. p. 117.) credeva indicati da Girolamo Rossi come degni di Fidia e di Policleto (Histor. Raven., Lib. 3. p. 159. ed. 1589.). Stanno questi anche oggidì in due pezzi di bassorilievo nella chiesa medesima di Ravenna: de’ quali uno, che il trono di Nettuno con tre puttini rappresenta, dal ch. P. Iacopo Belgrado Gesuita illustrato fu con una Dissertazione nel 1776. stampata in Cesena; senza però sapere che un bell’intaglio in rame nel 1518. dato fuori n’era stato, e questo all’originale molto più conforme di quello che il Montfaucon aveva prodotto (Antiq. expliq. Supplem. T. I. Tab. XXXVI.).
Ma nel secolo quindicesimo piantati li sodi principii della scuola di pittura dalli Vivarini, da Vittore Carpaccio, dalli Bellini, e da altri loro coetanei, e coltivati coll’opera ancora d’illustri maestri forestieri, particolarmente di Gentile da Fabriano, e d’Antonello da Messina, che qui grand’onore si fecero; ne venne in seguito voglia maggiore d’avere quadri dei più pregiati pennelli. Così la sollecitudine, che a gara si presero di promuovere la coltura delle umane lettere Francesco Barbaro, Lionardo Giustiniano, Zaccheria Trevisano, Andrea Giuliano, Pietro Miani, Pietro Donato, Iacopo Zeno, Pietro Barbo poi Papa Paolo II., Daniele Vitturi, Bernardo Bembo, Girolamo Donato, Bernardo Giustiniano, Ermolao Barbaro, e altri autorevoli personaggi dell’ordine patrizio, avendo portato seco lo studio dell’antichità e l’amore delle arti liberali; si andò parimente propagando il gusto di possedere belli e rari artefatti. Il lusso poi vi si aggiunse, che nacque dall’opulenza della città, e obbligò le doviziose famiglie ad abbellire splendidamente ancora con essi li proprii palagi. Nè v’ha dubbio alcuno che alla magnifica decorazione della città, sempre avuta a cuore dal pubblico, non accoppiassero li privati tutta la possibile suntuosità in ogni parte di arredi, o per materia, o per artifizio pregevoli; talchè il Conte Iacopo di Porzia nell’operetta De Reip. Venetæ administratione, data a stampa in Trevigi intorno all’anno 1492, diceva loro, non senza farne qualche rimprovero: Quid multa & varia domestica ornamenta proferam? Quid pretiosam illam argenti & auri supellectilem? Quid aulæa & omnia stragulorum genera, quibus domus vestræ penitus renident? in quibus adeo modum exceditis, ut cuiuslibet Veneti privati supellex amplissimam domum regiam exornare posset? E perciò il Robertson ha potuto con verità scrivere di que’ tempi (Recherches historiq. sur la connoissance, que les anciens avoient de l’Inde, Paris 1792. p. 195.): „Gli storici di que’ tempi parlano dello stato di Venezia, nel periodo che abbiamo sotto gli occhi, con espressioni che ad alcuna altra città dell’Europa convenire non possono. Le rendite della Repubblica, e le ricchezze de’ privati cittadini erano superiori a quelle delle altre città. Nella magnificenza de’ palazzi, nella preziosità degli addobbi, nell’abbondanza de’ vasi d’oro e d’argento, e in tutto quello che serviva alla politezza, o alla splendidezza del trattamento, li Nobili di Venezia superavano il lusso de’ più gran Re oltramontani: nè tutta questa pompa era già effetto di vana e inconsiderata prodigalità; ma bensì naturale conseguenza d’una felice industria, per cui dietro alla facilità di aver ammassate ricchezze il diritto veniva di goderne splendidamente.”
Coll’avervi poi nel secolo sedicesimo gettate profonde radici le belle arti, mercè appunto il favore de’ nostri, sempre pronto all’avanzamento di esse; di mano in mano ebbero qui campo di cospicuamente spiegare li maravigliosi loro talenti Giorgione, Tiziano, il Pordenone, Paolo, e il Tintoretto nella pittura; il Sansovino, Tullio Lombardo, il Vittoria, e Danese Cataneo nella scultura; Alessandro Leopardi e Vettore Gambello ne’ lavori di getto; siccome fecero a’ tempi medesimi Fra Giocondo, il Sansovino, Pietro e Tullio Lombardi, il Sammichieli, il Palladio, lo Scamozzio nell’architettura. Quindi belle e continue occasioni si avevano di aggiungere alle opere preziose degli antichi quelle de’ moderni ancora. Lungi andrebbe dal vero chi credesse che nell’operetta presente le collezioni tutte d’opere di disegno, ch’erano a suo tempo in Venezia, l’autore abbia indicate, e più altre non ne lasciasse addietro. Oltre a quelle ch’egli ci addita, facendone conoscere alcune per la prima volta, altre in quel torno medesimo ve n’aveva presso Marino Sanudo, Andrea Loredano, Girolamo Quirini, Alessandro Contarini, Sebastiano Erizzo, Stefano Magno, Antonio Zantani, Lionardo Mocenigo, Francesco Amadi, Andrea Franceschi, Francesco Fileto, Giovambattista Rannusio, Andrea Martini ed altri ancora; di maniera che propagatasi vieppiù l’imitazione dell’esempio de’ maggiori, potè farsi animo il Sansovino di scrivere nel 1565, che in Venezia v’erano più pitture, che in tutto il resto d’Italia (Cose notabili di Venetia, p. 20. t.); e sul finire del secolo fece sì copioso elenco degli studii d’anticaglie presso de’ nostri, da potere star a petto con quello di ogni altra grande città (Descriz. di Venezia, p. 138. ed. 1580.). Nè in alcun tempo è poi mancato buon numero di cittadini, che l’opera loro anche in questa parte di erudizione civile, e d’ornamento patrio con grande studio hanno posta: e quindi grande e bell’argomento avrebbe alle mani chi di farne piena trattazione imprendere volesse.
Degna pertanto di venire in pubblica luce, per le ragioni che da principio diceva, riputando sempre quest’operetta, una qualche occasione di durla io attendeva: e questa ora bene sta che cogliere abbia potuto. Non solamente memorie di cose Veneziane, ma altre ancora d’alcune città d’Italia essendosi prefisso l’autore di scrivere; neppure però quanto a queste esaurito egli ha l’argomento: che anzi assai notabili monumenti d’arte, in queste altre città conservati, ha egli tralasciato di registrare, siccome agevolmente mostrare potrei. Ma forse v’è luogo a credere che una continuazione qualche buon supplimento di notizie contenesse; atteso che altra sua scrittura con carte numerate, a questa relativa, dall’autore medesimo allegata si vegga. Frattanto però che altro sbuchi fuori, abbia il pubblico tutto ciò che trovato si è; e tenga questa scrittura il più antico posto fra quelle che, col titolo di Guida a conoscere opere in alcuna città d’Italia particolarmente, ora siamo avvezzi ad avere; giacchè alla prima metà del secolo sedicesimo ella tutta appartiene.
Curiosi a ragione esser devono i lettori di sapere chi questo anonimo si fosse, il quale di belle opere innamorato indagatore si mostra. Ch’egli un qualche artefice di disegno sia stato, pare che lo mostri la franchezza e precisione con cui porta il suo giudicio sopra alcune principali fatture. Ma però che di erudizione al gusto suo conveniente fosse adorno, senza dubbio affermare si può, tosto che riflettasi ch’egli non solo prendeva lumi dalla voce degli artisti, come si vede che fece con Andrea Riccio Padovano, soprannominato Crispo Briosco, celebre fonditore e architetto, e con Niccolò d’Avanzo Veronese, intagliatore di gemme; ma di cose scritte se ne valeva ancora, cioè d’una Lettera Latina di Girolamo Campagnola Padovano a Niccolò Leonico Tomeo sopra gli antichi pittori di Padova, del Comento di Cesare Cesariano sopra Vitruvio, e forse d’altro, che non indica nominatamente. Per sospettare ch’egli Padovano fosse, argomenti non mancano: bensì ne mancherebbero per attribuirgli altra patria. Le opere di quella città egli più diffusamente e con istudio maggiore riferisce, che quelle d’altrove: per fissarne gli artefici prende autorità dalla Lettera del Campagnola e dalla voce del Riccio, ambedue Padovani: nominando la Repubblica di Venezia dice li Signori Veneziani, il qual modo di dire a sudditi d’essa Repubblica s’adatta: per orefice replicatamente dice orevexe siccome anche oggidì dicono li Padovani: tutti indizii, che insieme considerati uno scrittore di quella patria facilmente far credere possono. S’aggiunga ancora, che nel manoscritto stanno in primo luogo li fogli che le opere di Padova contengono, e che quella collocazione essi vi serbano da vecchio tempo, siccome la numerazione ne mostra.
Volendo adunque mettere in pubblico quest’operetta, dopo di averla con l’originale, ch’è di carattere abbastanza cattivo, attentamente riscontrata; per non abbandonarla nella volgare e negletta sua dettatura, alcune annotazioni vi ho aggiunte, onde accreditare le cose dettevi, o rischiararne le oscurità. Di ciò che i lettori da per se, o col mezzo di libri facili a vedersi bene saper possono, quasi nessun pensiero preso mi sono: altrimenti d’opere e d’artisti quanto da dire non avrei avuto? Quando però mi trovai nel caso di potere dar fuori notizie nuove, o di ammendar errori di autori gravi, non mi sono mai guardato dal farlo; persuaso che così vie maggiormente grato agli amatori di questa sorte di erudizione il libro riuscito sarebbe. Giudicii miei sopra il merito degli artefici non ho frammessi giammai; perciocchè in vece d’esser io preso dall’ambire il tuono decisivo di alcuni moderni scrittori su queste materie, sono anzi d’opinione con Plinio il giovine che de pictore, sculptore, fusore, nisi artifex iudicare non potest (Lib. I. Ep. 10.). Qualunque però sia stata l’opera da me in questo picciolo lavoro posta; voglio nientedimeno sperare che dagli uomini di civile coltura e di moderato animo sarà ella abbastanza gradita.
Ma certamente mancar non mi può la compiacenza di avere con quest’edizione soddisfatto all’uffizio di congratulazione col degnissimo Signor Conte Giuseppe Perli Remondini, per le nozze dell’ottimo Signor Conte Giovambattista di lui figliuolo con la nobilissima Signora Contessa Teresa Pola; giacchè di metter fuori essa operetta, come segno pubblico di allegrezza mia nell’occasione di quel fausto avvenimento divisato io aveva. Che se poi ciò tardi s’adempie, impedimenti non potuti prevedersi cagione stati ne sono; e in questo caso a perfezione giuoca il notissimo detto del grande Oratore Romano: Sera gratulatio reprehendi non solet, præsertim si nulla negligentia prætermissa est. (Epist. famil. Lib. II. ep. 7.).