Niccolò Franco al signor Girolamo Moro
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NICCOLÒ FRANCO
al signor
GIROLAMO MORO,
tesoriere in monferrato.
Debbo alla malignità de’ nemici, ed alla tristizia degli amici restare anzi che non obbligato. Perche se le lor congiure non intravenivano negli oltraggie ne i danni miei, starei tuttavia dove pareva ch’io potea esser preda delle mani loro, nè perciò mi saria stato lecito di far l’acquisto ch’ho fatto. Ecco prima per questo, i maligni nemici sotterrati d’eterna infamia, ed a i tristi data acre percossa dell’error loro, poichè fo lor conoscere che in vece de i dieci tristi, me ne ho procacciati i duecento buoni, sì che la sorte non m’ha peggiorato un punto come avrebbono voluto, poiché tali furono i loro portamenti con me, che ogni necessità mi desideravano ed ogni male, perch’io avessi ricorso agli ajuti loro.
Conoscevano i ghiotti l’intrinseco dell’esser mio, e sapevano ch’io non so aver faccia nel mendicare, e sapendolo avean per fermo d’aver colto un augello in gabbia, che non d’altro cibo dovesse pascersi che del loro, onde quanto più stò, manco posso rappacificarmene con la doglia, pensando che con tante fatiche mi sia posto in croce per quelli, che nel vedermi oppresso n’ebber piacere, e ferono lor forze perch’io fussi «Vergogne degl’uomini.»
Ma lodo per la Dio grazia quel gran disdetto che ho pur loro mostrato alla fine, ch’io sono il Franco dovunque vo, e spero esser quello, che se ’l mio avviso non m’inganna, farò sì che pentitisi dell’error loro se ne righeranno il viso con l’unghie. Se avessino se medesimi conosciuti, e visto che son più degni d’esser comandati che comandare, non averiano cercato con tanti spietati affetti voler porre il giogo alla mia libertà, tanto schiva del farsi incarcerare ne i cenni altrui. Nacqui libero e ci morrò, faccisi servo della taccagneria pretesca chi sa con destrezza tener le mani nelle sodomie, e ne’ ruffianesimi, ch’io natural nimico del vizio mi ci vedrei mal veduto.
Corra a corte chi con le chiavi dell’adulare sa aprire l’orecchie del divo, ch’io che mi pasco del lacerare l’adulazione mi ci morrei di fame. Vadaci chi ha la malía del sottentrarci, sì che dal maggiordomo sia posto in tavola, e dal cameriero raccolto in camera, e stiavisi poi se avrà occhi da guardarci gli adulteri, le calunnie, con le invidie, ch’io non avendoci stomaco sarei costretto di vomitarci, di che poco guadagno facendo a gran rischio mi metterei.
Valmi più l’aver conosciuto il mio signor Moro, e con esso lui la nobil presenza del signor Flaminio, e la piacevolezza del signor cavalier Ticinese, che non mi varrebbe la ricchezza che si può con infamia ritrarre dalla servitù cortigiana.
Emmi più gloria aver visto in Casale il signor Orlando dalla Valle, e il signor Francesco Scozia, lumi di cotesto senato, che non mi sarebbe stata se avessi visto il papa in pontificale. Ho più a caro d’averci conosciuta la dottrina e la bontà del signor Gioan Jacopo dal Pero, e del signor Lodovico dalla Torre, e averci guadagnata l’amistà del signor Gioan Guglielmo da Valpergo, del signor Annibale da Lazzarone, del signor Gioan Luigi Bazzano, e del signor Gioan Francesco Cardellone, che non avrei se d’altrettanti chierici l’avessi procacciata altrove.
Dove mi sarebbe a quest’ora amica la riverenza del signor Ploto? Ecco che me ne glorio, perchè sendo egli un archivo di Roma, anzi il supplemento delle sue croniche con l’avergli parlato arricchirò le mie istorie, ove non tacerò il gran miracolo della sua bontà Novarese, poichè invecchiata fra le corti, vi si sia mantenuta cotanto buona. Che più? Giovami più l’aver visto il Fossa piagnere sulla riva del Po per le leggiadrie d’una ninfa, che non m’avrebbe giovato se egli avesse visto me ridere sulla sponda del Tevere pel cantar di Pasquino, e mi risulta in più gloria, che l’Albano servitore d’un Cardinal Farnese mi tenga nel cuore, che non mi risulterebbe se tutti i Provenzani mi fusser schiavi. Fammi più prò l’aver assaggiata la gentilezza di messer Francesco Trapparello, e del reverendo Pier Francesco Cocastello, gloria de’ preti, non che de’ piovani, che non mi avrebbe fatto a tutto pasto la miseria de i tinelluzzi. Non vorrei non aver goduto messer Bessario de’ Malvezzi per le mitre di mille vescovi, perchè il torto della sua gamba ha più del dritto che non ne veggiamo negli andamenti preteschi. Sommi dunque doluto indegnamente della fortuna, e le ne chieggo perdono col darmene grave colpa. E se nol facessi, torrei le debite lodi a tutti coloro, che con la signoria vostra pare che onorino i grandi della vera e schietta amicizia. Onde per non usar villanía alla gentilezza della fortuna, ho voluto darvene un segno per una lettera, la quale ad altro fine non vi si scrive. E vi bacio le mani.
Di Torino del mese di giugno del 1541.
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