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DI NICCOLÒ FRANCO. 179

colto un augello in gabbia, che non d’altro cibo dovesse pascersi che del loro, onde quanto più stò, manco posso rappacificarmene con la doglia, pensando che con tante fatiche mi sia posto in croce per quelli, che nel vedermi oppresso n’ebber piacere, e ferono lor forze perch’io fussi «Vergogne degl’uomini.»

Ma lodo per la Dio grazia quel gran disdetto che ho pur loro mostrato alla fine, ch’io sono il Franco dovunque vo, e spero esser quello, che se ’l mio avviso non m’inganna, farò sì che pentitisi dell’error loro se ne righeranno il viso con l’unghie. Se avessino se medesimi conosciuti, e visto che son più degni d’esser comandati che comandare, non averiano cercato con tanti spietati affetti voler porre il giogo alla mia libertà, tanto schiva del farsi incarcerare ne i cenni altrui. Nacqui libero e ci morrò, faccisi servo della taccagneria pretesca chi sa con destrezza tener le mani nelle sodomie, e ne’ ruffianesimi, ch’io natural nimico del vizio mi ci vedrei mal veduto.

Corra a corte chi con le chiavi dell’adulare sa aprire l’orecchie del divo, ch’io che mi pasco del lacerare l’adulazione mi ci morrei di fame. Vadaci chi ha la malía del sottentrarci, sì che dal maggiordomo sia posto in tavola, e dal cameriero raccolto in camera, e stiavisi poi se avrà occhi da guardarci gli adulteri, le calunnie, con le invidie, ch’io non avendoci stomaco sarei costretto di vomitarci, di che poco